Il crollo delle Borse del 23 maggio è stato solo l’ultimo segnale di una fase turbolenta che sembra più l’inizio di una tempesta perfetta non solo per gli Stati Uniti ma per il mondo intero
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Sono bastati pochi mesi perché la seconda presidenza di Donald Trump si rivelasse non solo dirompente, ma potenzialmente destabilizzante per l’equilibrio economico e geopolitico globale. E ora, con i mercati in caduta libera e gli alleati internazionali spiazzati, cresce la percezione – anche dentro gli Stati Uniti – di un presidente sempre più fuori controllo.
Il crollo delle Borse del 23 maggio è stato solo l’ultimo segnale di una crisi latente. Wall Street ha perso oltre il 3,5% in una sola seduta, mentre le piazze europee – da Francoforte a Milano – sono sprofondate ai minimi da inizio anno. Il motivo è presto detto: un tweet di Trump, l’ennesimo annuncio improvviso e senza mediazione diplomatica. «Dal 1° giugno, dazi del 50% su tutte le importazioni dalla Ue. L’Europa ci ha preso in giro per troppo tempo», ha scritto il presidente, provocando un panico immediato tra gli investitori.
A Bruxelles si è aperta una riunione d’urgenza del Consiglio Europeo per valutare contromisure. Parigi e Berlino parlano già di una «guerra commerciale totale». Le associazioni di categoria statunitensi, dai produttori di auto ai colossi dell’agricoltura, hanno espresso preoccupazione per le inevitabili ritorsioni europee.
Non meno destabilizzante è stato il decreto esecutivo firmato a inizio settimana che vieta l’ingresso nelle università americane a studenti stranieri, con la motivazione – secondo Trump – di «proteggere il sapere americano e garantire l’accesso ai cittadini Usa». La decisione ha provocato la condanna unanime dei rettori dei principali atenei statunitensi e la reazione sdegnata delle cancellerie di mezzo mondo. In un sol colpo, l’America ha rinunciato a uno dei suoi principali strumenti di soft power: l’attrattività culturale e accademica.
Trump aveva promesso, in campagna elettorale e nel discorso inaugurale, che avrebbe «risolto la guerra in Ucraina in 24 ore». Ma a cinque mesi dall’insediamento, non solo il conflitto continua, ma la Casa Bianca sembra aver scelto la linea del disimpegno. Fonti interne al Pentagono parlano di un ritiro graduale del supporto militare a Kyiv. In un’intervista alla Fox, Trump ha dichiarato: «Non è il nostro conflitto. Gli europei devono imparare a cavarsela da soli».
Nel frattempo, la crisi in Medio Oriente è esplosa nuovamente. Israele ha intensificato i bombardamenti sulla Striscia di Gaza, e l’amministrazione americana si è limitata a dichiarazioni di circostanza. Nessun tentativo di mediazione, nessun contatto diretto con Netanyahu. La sensazione è che la politica estera statunitense sia stata completamente disarticolata, affidata all’istinto di un presidente che non ascolta né il Dipartimento di Stato né gli alleati.
I sondaggi parlano chiaro: la fiducia degli americani nella leadership di Trump è crollata. Secondo un rilevamento Gallup pubblicato il 22 maggio, solo il 38% degli elettori approva l’operato del presidente, contro il 56% che lo giudica negativamente. Si tratta di uno dei dati peggiori mai registrati nei primi sei mesi di mandato per un presidente americano.
Anche tra i repubblicani crescono i malumori. Alcuni senatori del Gop, come Mitt Romney e Lisa Murkowski, hanno espresso pubblicamente perplessità sulla direzione presa dalla Casa Bianca. Si mormora di possibili defezioni in vista delle prossime battaglie legislative.
Donald Trump è tornato al potere con la promessa di riportare l’America alla sua presunta grandezza. Ma finora, i suoi atti hanno generato caos nei mercati, disorientamento tra gli alleati, e tensione dentro e fuori i confini nazionali. Un presidente che, nel suo secondo mandato, appare ancora più solo, ancora più impulsivo, ancora più pericolosamente imprevedibile.
Il rischio è che non si tratti solo di una fase turbolenta, ma dell’inizio di una tempesta perfetta. Per gli Stati Uniti. E per il mondo intero.