Sorpresa, curiosità e, per qualcuno, un senso di allarme. L’elezione del primo papa statunitense della storia ha scosso l’America ben più di quanto accada di solito con gli affari vaticani. Ma se il fatto storico ha unito commentatori e giornali nel sottolinearne la portata, la figura di Robert Francis Prevost – oggi Leone XIV – ha subito spaccato il fronte politico. Perché questo pontefice, pur parlando inglese come alla Casa Bianca, si muove su una linea totalmente diversa da quella di Donald Trump e dei suoi uomini. A partire proprio dal tema che li divide di più: l’immigrazione.

Il New York Post, quotidiano conservatore ma non cieco, ha messo l’accento su due elementi chiave: la rapidità dell’elezione, avvenuta in sole quattro votazioni, e la continuità con il pontificato di Francesco. «Un papa americano che porta avanti la visione progressista del suo predecessore», si legge, «e può aiutare le giovani generazioni a riavvicinarsi alla fede cattolica». Una lettura ben più conciliante di quella fornita da Fox News, megafono mediatico del trumpismo, che in un editoriale si chiede se il Vaticano non stia diventando parte di quel “modernismo” che un tempo combatteva. «Cosa succede se il papa non vuole più opporsi alla modernità, ma diventarne parte per sentirsi rilevante?», è la domanda retorica rilanciata da Fox, accompagnata da previsioni cupe sul futuro della dottrina cattolica.

Il Daily Beast, voce progressista, ha invece evidenziato le critiche arrivate da commentatori dell’estrema destra, puntando l’attenzione su un passaggio ben preciso del discorso inaugurale: la condanna delle politiche anti-immigrazione, un colpo diretto all’eredità di Trump. E proprio l’apertura verso i migranti rischia di diventare il terreno più delicato nei rapporti tra Washington e San Pietro. Il Washington Post, in un editoriale, lo ha detto chiaramente: Leone XIV “sale su una delle piattaforme più influenti del pianeta, e sembra intenzionato a usarla, anche a costo di criticare il suo stesso Paese d’origine”. A confermarlo c’è l’attività social del nuovo Papa: l’ultimo post è un retweet di aprile in cui si denuncia la deportazione di Kilmar Abrego García in Salvador, ordinata da Trump e Bukele. Un gesto non casuale, segno di una sensibilità che non intende allinearsi al potere.

Certo, non mancano le voci favorevoli. La CBS ha raccolto la reazione entusiasta di molti cattolici americani, felici di vedere uno dei loro salire al soglio pontificio. E David Gibson, autorevole osservatore del New York Times e direttore del Center on Religion and Culture della Fordham University, ha scritto che «con questa elezione, il Collegio dei cardinali ha lanciato un messaggio chiaro: continuità con le riforme di Francesco». Ma avverte anche: «Nonostante la fama di maggiore disciplina personale rispetto al predecessore, la rabbia del fronte conservatore che ha agitato il pontificato di Bergoglio continuerà anche con Leone XIV».

Poi c’è la questione economica, che divide ancor più nettamente. Il Wall Street Journal ha apprezzato il passaggio in cui il Papa ha evocato “una Chiesa vicina a chi soffre”, ma ha subito aggiunto che sarebbe auspicabile «non ostilità verso i mercati liberi», considerati il modo migliore per alleviare la povertà. Ricordando come Francesco vedesse nel capitalismo argentino una forma di corruzione, il quotidiano finanziario si chiede se anche Prevost seguirà la stessa linea, trasformando San Pietro nella nuova spina nel fianco del neoliberismo.

Certo è che il nuovo Papa, con i suoi post, i suoi discorsi e la sua storia personale – tra Chicago, il Perù e la curia romana – sembra incarnare la versione americana del cattolicesimo sociale di Francesco. Nessuna rottura clamorosa, ma una fedeltà di fondo all’idea di una Chiesa che abbraccia le periferie, accoglie i migranti, difende i diritti umani e, quando serve, alza la voce contro chi comanda. Anche se si chiama Donald Trump.