Che cosa si prova a camminare su un selciato che ha 2.500 anni di storia? È la domanda che mi sono posto quando, assieme a Lino Licari, camminatore, archeo-amatore e guida ufficiale dell’Ente Parco Aspromonte, mi sono recato a visitare quella che potrebbe propriamente essaere definita come la prima autostrada della storia. L’autostrada della Magna Grecia. Una lunga colonna vertebrale che, partendo da San Pasquale, frazione di Bova Marina, proseguiva fin oltre il Pollino per biforcarsi in due direttrici, una che conduceva a Cuma e l’altra verso l’odierna Taranto. Trovatici a Reggio, l’idea era quella di andare a visitare e documentare una delle arterie più importanti dell’antichità, l’autostrada ante litteram che univa tutti i territori della Magna Grecia.

Lino è uno studioso di storia antica, con un passato di importanti collaborazioni con l’Ente parco Aspromonte e quella che si può definire come sentinella di siti archeologici. Una passione che nasce da lontano e che si sviluppa attraverso un percorso capace di unire natura e cultura: «All’epoca il Parco Nazionale dell’Aspromonte era realtà da pochi anni. Si trattava della sezione aspromontana del Parco Nazionale della Calabria, esistito fino al 2002. L’Aspromonte sarebbe divenuto nel 1989 il sesto parco nazionale istituito in Italia. Nel 1994 la Regione e il Ministero dell’Ambiente promossero un corso per la formazione di guide specializzate nell’accompagnamento all’interno di aree protette che sarebbe stato funzionale alla vita del nuovo parco nazionale. Partecipai a questo corso e mi diplomai, cominciando la mia attività di guida. Fui poi tra i fondatori della cooperativa Naturaliter, nata nel 1998 nell’Area Grecanica accogliere i camminatori che percorrevano il Sentiero dell’Inglese, realizzato da un gruppo di appassionati assieme a me nel 1995. E che poi si è specializzata nella creazione di reti di servizi turistici in aree protette di tutto il Mediterraneo, con il coinvolgimento e la partecipazione delle comunità locali. Con Naturaliter ebbi la possibilità di lavorare a stretto contatto con appassionati e studiosi. Tra loro c’era Ezio Praticò, appassionato di preistoria che collaborava con la Soprintendenza segnalando siti individuati durante le uscite organizzate. Standogli a fianco, acquisivo le sue conoscenze e cresceva una passione che era fatta di stupore e ammirazione per un territorio abbagliante, selvaggio, ricco di contrasti e spigoli. Devo a Ezio la passione per l’archeologia e l’inizio del mio percorso di archeo-amatore e segnalatore».

Le parole di Lino rotolano fuori dalla sua bocca con la stessa intensità di quelle che le fiumare portano con sé durante le piene, in un tragitto al contrario, che dalla valle conduce sulle alture, fino agli speroni del Passo della Zita. Su questa strada pochi sanno che sono presenti la selce nera e l’ossidiana. «Con il tempo e l’esperienza ho imparato a riconoscere siti archeologici o insediativi semisepolti nel terreno e da li sono transitato verso l’archeologia sperimentale: organizzavo laboratori scolastici in cui ricostruivo la strumentazione degli uomini preistorici utilizzando i materiali che loro stessi usavano, legno, fibre, pietre. Quando l’Ente Parco venne a conoscenza della mia attività, mi propose di avviare una collaborazione. Sono tra i fortunati che ha potuto sperimentare la filoxenia greca e tra coloro che ha conosciuto gli ultimi abitanti di Chorìo di Roghudi e Casalinovo. Dal 2016, tra alti e bassi opero con Natrurarcheo, organizzazione che unisce l’escursionismo con percorsi ed esperienze archeologiche».

Siamo ormai in quota a quasi 1000 metri di altitudine. Da qui è possibile scorgere parte del tracciato magnificamente conservato del dromo greco. Guardando a sinistra si spinge in altura, inoltrandosi nella montagna; a sinistra scivola sul crinale fino a congiungersi all’abitato di Bova. Questa strada è stata percorsa per oltre due millenni. Abbandoniamo il passo della Zita, scendiamo sotto il ponte e superata una recinzione rudimentale, restiamo aggrappati al crinale dello sperone. Sopra di noi c’è il selciato greco, con il suo lastricato che risale sinuosamente la montagna, ricalcandone curve e pendenze. Seguo Lino che prosegue il suo racconto: «Siamo su un passo di montagna importante utilizzato dall’antichità fino quasi ai nostri giorni, sicuramente fino al 1950 dalla popolazione locale. Da Bova Marina, il grande dromo greco risale a Bova, dove ci sono tracce visibili di una fortezza greca che veniva evidentemente intersecato. Taglia per obliquo l’odierno passo della Zita, giunge al forte e alla stazione di cambio cavalli dei campi di Bova, sale in altura fino ai 1.400 – 1.500 metri, oltrepassa lo Zillastro e i Piani di Carmelia e continua verso Zervò. Qui un suo ramo scende verso l’antica Metauros, mentre il tracciato principale percorre in sequenza l’Aspromonte, le Serre e il Pollino. Un tracciato di centinaia di km che attraversano, congiungendolo, il Sud Italia fino a biforcarsi in due direttrici, una che sale verso Nord in direzione Cuma, e l’altra che vira a est, direzione Taranto, verso il canale di Otranto, dove avveniva il passaggio delle navi greche. Come puoi vedere tu stesso l’antico selciato che segna le salite è ancora quasi perfettamente conservato. I tratti in pianura sono invece in terra battuta. Non solo. Io che l’ho percorsa per ampi tratti, posso testimoniare che nell’entroterra, lungo il suo percorso, si possono trovare i resti delle fortificazioni che questa strada incrociava e quelli dei ceppi che segnavano distanze e chilometri. Abbiamo sempre scambiato questa strada per un sentiero. Ma si stratta di un sentiero che non è un sentiero: sono piuttosto i sentieri Italia e dei Briganti a passare su questa magnifica primigenia autostrada che ci consente di ripercorrere antiche vie e identità sepolte e che ci consentirebbe di riappropriarci di un passato che può rappresentare un punto di svolta per il futuro. Un patrimonio inestimabile che ricade all’interno del territorio del Parco nazionale dell’Aspromonte e dei 37 Comuni che compongono la sua area. Ora tocca a noi tutelarlo, sistemarlo, valorizzarlo, perché può rappresentare davvero una risorsa», conclude Licari in quello che suona come un accorato appello.

Specie se inserito e concettualizzato in una più vasta area archeologica su sui si lavora da tempo, aggiungiamo noi.