Nel suo ultimo libro lo scrittore esplora l’anima più autentica della regione, tra sentieri, ospitalità antica e paesaggi dimenticati: «Qui si riscopre il senso del limite e la libertà dell’altrove»
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Negli ultimi anni, importanti giornali esteri hanno risvegliato l’interesse dell’opinione pubblica sul patrimonio paesaggistico, culturale, agro-alimentare ed enogastronomico della Calabria. La regione è stata descritta come un’inedita meta di viaggio nel cuore del Mediterraneo, ai margini del Vecchio Continente, una terra ancora in gran parte incognita, che merita d’essere scoperta da viaggiatori dal palato buono. Così la regione ha finito col rappresentare il vero esotico d’Europa, un mondo cioè lontano, non ancora interamente contaminato dalla modernità. Parte da questo assunto, l’ultima fatica letteraria di Francesco Bevilacqua. Lo abbiamo incontrato per approfondire i dettagli del suo ultimo libro.
Pronto il suo terzo libro edito in questo anno, "Calabria esotica, il paesaggio rivelato", Rubbettino editore. Di cosa parliamo?
«Di un libro di grande formato, con testi e foto. Nell’introduzione cerco di spiegare perché la Calabria ha paesaggi eminenti, che da soli potrebbero essere la più grande “attività produttiva” della regione. Nella prima parte faccio un excursus sulle caratteristiche del paesaggio calabrese, sul viaggio in Calabria e sull’invenzione del paesaggio calabrese da parte dei viaggiatori, che erano per lo più forestieri, sui narratori calabresi, quasi tutti orfani di paesaggio, nel senso che nei loro romanzi non sembrano accorgersi del valore estetico e storico del paesaggio, sull’atteggiamento contraddittorio dei calabresi verso la Calabria ed il suo territorio, cercando di delineare qualche soluzione per riannodare il legame reciso fra uomini e luoghi. Nella seconda parte, invece, ho raccolto un’antologia di 423 brani sui paesaggi calabresi, suddivisi per grandi comprensori montani e marini, di 96 autori diversi, fra viaggiatori, descrittori e narratori. Il tutto corredato da molte foto a colori scattate con ogni condizione atmosferica in tanti anni di viaggi, cammini, erranze, come mi piace chiamare le mie peregrinazioni pedestri in Calabria».
Nell'introduzione il libro parla della Calabria e del suo carattere"neo-esotico". A cosa si riferisce?
«Negli ultimi anni ho notato un crescente interesse per la Calabria di giornali esteri importanti come il New York Times, il National Geographic, il Time. Negli USA ne ha parlato nel suo programma televisivo anche l’attore, regista ed esperto di gastronomia Stanley Tucci, che è appositamente venuto in Calabria. Giornali e programmi inseriscono la Calabria fra le mete più ambite al mondo per i viaggiatori di palato buono e la descrivono come una terra incognita eppure particolarmente attraente. Lo stesso interesse ho riscontrato nei tanti stranieri o non calabresi che incontro durante i miei cammini nelle montagne, talvolta persino in luoghi davvero poco battuti se non remoti, dal Pollino all’Aspromonte. Senza contare i casi, non più sporadici ormai, di persone che lasciano le grandi città e scelgono di venire a risiedere in piccoli paesi calabresi, di cui da qualche hanno raccolgo le testimonianze. E poi ci sono gli aneddoti di amici che gestiscono agriturismi, B&B, residenze storiche. Mi sono, quindi, domandato quale sia la caratteristica della Calabria che più determina questa attrattività, in una regione che pure sconta molti pregiudizi. Penso che l’elemento che più fa scattare la molla è la sua “esoticità”, ossia l’essere una terra liminare, periferica, all’estremo sud dell’Europa, quindi lontana (ma non tanto da costringere a lungi tragitti), poco conosciuta nei grandi circuiti del turismo internazionale, con tanti attrattori naturali, culturali ed antropologici che ancora consentono scoperte ed avventure, in un tempo in cui sia le une che le altre sono pressoché scomparse oppure si ridotte a simulacri di se stesse. Nel mio libro provo a spiegare tutto questo e ad offrirne le prove».
Secondo lei permangono tuttora il mistero, l’alterità, e quell’aurea di selvatichezza nella nostra terra? O forse si stanno perdendo?
«La Calabria conserva più di molte altre zone dell’Occidente civilizzato queste caratteristiche, che io declino, all’interno dell’esotico in quattro categorie. La Calabria è neo-selvaggia, perché emigrazione, spopolamento e diminuzione delle antiche pratiche agro-silvo-pastorali hanno consentito ai boschi di riappropriarsi di una grande parte del territorio, rinaturalizzandolo al punto che in alcuni casi, sembra di essere in una giungla incaica con resti di antiche civiltà avvolti dalla vegetazione: penso ad esempio alle rovine di Africo Vecchio in Aspromonte. E’ neo-autentica, perché non avendo mai avuto un’industria turistica avanzata, gran parte dell’accoglienza che offriamo come Calabresi ha un’impronta di autenticità che risale al sentimento di ospitalità che ci viene dall’essere stata, la Calabria legata per secoli alla cultura Greca dove l’ospite, in quanto mandato dagli dei, andava onorato. Una chiara testimonianza in tal senso è quella di Cesare Pavese che fu inviato al confino sotto il fascismo a Brancaleone e parlò di questo tema alla sorella in una lettera. E’ neo-pittoresca, nel senso in cui era ritenuta pittoresca, cioè insolita, eccentrica, poco catalogabile, dai viaggiatori stranieri che la percorsero fra il ‘700 e i primi anni del ‘900: penso anche a certi accostamenti surreali fra la natura lussureggiante e le rovine sia dell’antico che della modernità come “il famigerato non finito calabro”. Infine è neo-magica, intendendo con questo termine non solo le forme di magismo che studiò Ernesto De Martino nell’immediato dopoguerra nel Sud (tarantismo, sfascinazione, riti, miti) ma anche forme di irrazionalità sana (Platone nel Fedro fa dire a Socrate che la follia è migliore della temperanza perché la prima viene dagli dei mentre la seconda è prodotta dagli uomini), che sono molto apprezzate da gente che lavora in ambienti urbani, iper tecnologici, algidi e troppo razionali».
Nel libro lei parla del paesaggio fisico ma anche del "paesaggio interiore".
«E’ l’archetipo collettivo del paesaggio che è stato vissuto dai nostri avi e che ci è stato trasmesso anche senza volerlo. Lo chiamo anche, mutuando dalla psicoanalisi, “rimosso territoriale”. E qui veniamo alle dolenti note. Come intuirono Paolini e Berto, i calabresi non amano il paesaggio perché afflitti da un complesso di inferiorità collettiva della loro civiltà contadina rispetto alla civiltà industriale del Nord. Sono stati soprattutto gli emigranti a raccontare di quanto fossero civili e ricche le città del Nord, ossia il paesaggio dell’artefatto per eccellenza, rispetto ai paesi e alle campagne del Sud, che vennero così definitivamente associati alla miseria. Si spiega in questo modo anche il grande successo che ebbero in Calabria il cemento armato, l’asfalto, l’alluminio ed altri materiali da costruzione moderni che venivano preferiti alle pietre, ai selciati ed agli acciottolati, al legno. Mille volte, incontrando persone del luogo mentre cammino in natura queste si meravigliano che io vada a piedi senza uno scopo utilitaristico. Il mantra è (soprattutto era): “Che ci venite a fare qui? Non c’è niente”. Per questo ci si arrende alle piaghe della nostra terra: mafie, corruzione, saccheggio del territorio, servizi carenti etc. Per questo si svendono i territori. Ma le cose stanno cambiando. Comincia lentamente a prendere piede quella che io chiamo “oikofilia” cioè amore per la propria terra. C’è tanta gente che si batte contro tutti gli aspetti negativi, che promuove attività anche economiche in linea con le vocazioni dei luoghi e che funzionano».
Quest’anno ha pubblicato anche altri due libri: "Passeggiate ed escursioni in Calabria" e "Il Parco Nazionale della Sila". Insomma, non ci si stanca mai di raccontare la Calabria?
«Non mi stanco mai di far vedere il bello della Calabria e di cercare ancora le sue tracce, pur con la consapevolezza delle cose che non vanno ed impegnandomi per il cambiamento. E’ da quando rientrai in Calabria dall’università che viaggio quasi sempre in Calabria e a piedi, scrivo libri ed articoli, scatto foto, milito nelle principali associazioni di tutela. E, quel che è più curioso, è che, pur avendo scritto ben dieci guide sui grandi comprensori paesaggistici della Calabria (oltre a tutti gli altri libri), ancora oggi mi capita di scoprire nuovi luoghi di straordinaria bellezza che prima mi erano sconosciuti. Oramai molti paesi calabresi hanno associazioni che riscoprono i loro territori e cercano di proteggerli. Ovviamente con la modernizzazione crescono anche i pericoli per il paesaggio. Ma deve assisterci l’ottimismo del cuore. E soprattutto dobbiamo comprendere, come calabresi, che anche noi, in quanto singoli o associati, siamo istituzioni, capaci di incidere sulla realtà. Solo la consapevolezza, la conoscenza, la passione e l’amore per i nostri paesaggi, come hanno capito fra gli altri due grandi calabresi come Augusto Placanica e Salvatore Settis, potremo produrre una rigenerazione dei nostri luoghi».