Era di Maggio: la tragedia di Aldo Moro e quell’eskimo sulla scala di salsedine

Nel giorno dell'anniversario dell'esecuzione dello statista italiano per mano delle Brigate rosse, il ricordo di quei momenti bui nel racconto autobiografico di Antonella Grippo

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di Antonella Grippo
9 maggio 2021
07:53
Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro
Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro

La primavera a Sapri si annuncia in largo anticipo. Non così quella mattina del 16 marzo senza alghe appena in fiore o suoni rauchi di chitarre. Geometriche potenze, due mesi dopo, a maggio, deflagreranno in prossimità delle nostre vite. Lungo il pendìo di un gerundio precipita e smotta la vicenda che ci sospenderà.
"Concludiamo la campagna di primavera, eseguendo la condanna a morte del prigioniero, Aldo Moro." Così le Brigate Rosse.

Eseguendo, eseguendo: sanguinaria ermeneutica di un verbo. I fatti, d'improvviso, si ritraggono. Rattrappiscono, arretrano. Non ci sono fatti, ma interpretazioni. Fino a che la morte smarrisce il suo tratto solenne dentro il portabagagli di una Renault, nel centro di Roma. Io ed il mio eskimo, di ritorno da un viaggio in Toscana, scaliamo d'un fiato la rampa della casa di salsedine. Cerco l'abbraccio di mio padre. Perché lenisca i lividi del cuore per tanta barbarie. Tumefazione di anime ingerite in gola, a bordo di un vascello lacrimoso. Noi due, d'un tratto, coetanei veglianti la salma di un sogno dilaniato. Tramonta un decennio di passioni scandite da partiture collettive. Declina dal cielo sull'asfalto molle del mare di Sapri, come bagliore di un fuoco d'artificio in disarmo.


Quel maggio, che proprio oggi sporge-ormai quarantatreenne- si ostina a non trascorrere. Ha scelto di non congedarsi da me. All'alba, l'ho sorpreso indugiare ancora sul dorso della mia sigaretta. Come un tormento che chiede di restare. Come un dolore spiaggiato. Perché non si possa dubitare del fatto che un dolore così voglia non far più cenno di sé. Lo devo ai suoi "piccoli occhi mortali", Presidente. Alla sua barba incolta, riversa sul crinale della Storia; lo devo al suo corpo rannicchiato dentro il buio della Repubblica. Alla solitudine estrema, senza ritorno, inflittale, oltre che dai suoi assassini, dai visi pallidi della pavida "linea della fermezza". Agli uomini di scorta massacrati. Lo devo al senso più nobile di pìetas, che non consente parsimonie. Lo devo, infine, a me stessa, ragazzaccia di Lotta Continua.

Alla mia generazione che, pur ebbra di fervore rivoluzionario, avrebbe preteso un altro epilogo. La nostra era una cattiveria "poetica". Iperbolica. Ci si imbrattava di operaismo "lirico". Assai poco terroristico. L'unica clandestinità che passava il convento la si intratteneva con i "Fiori rosa e di pesco" di Lucio Battisti, la cui poetica ci era inibita dai precetti del cantautorato d'ordinanza. E pensare che nemmeno Mogol era fascista. Il brivido? Salire a bordo delle liste di proscrizione del Pci. Sì, se sfottevi un celerino, per Botteghe Oscure era incidente probatorio. Noi, con "due anime ed un sesso di ramo duro in cuore", avremmo voluto un altro epilogo. Di un uomo sulla strada di casa. A pochi passi dall'abbraccio con la sua Norina. Dovunque lei sia, Presidente Moro, guardi il dorso della mia sigaretta. Magari, domani. All'alba.

Giornalista
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