Ringhio è megl'e Pelé

Gattuso dalla panchina del Napoli a quella della Fiorentina. E si porta appresso la sua calabresità autentica, irriducibile e coraggiosa che non ha niente a che vedere con lo stereotipo dell’emigrante. Il ritratto di Antonella Grippo

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di Antonella Grippo
30 maggio 2021
10:15
Gennaro Gattuso
Gennaro Gattuso

Scrivere di Gennaro Gattuso, stando alla larga dalla poetica MinoReitanica della Valigia e delle cento illusioni al seguito, è assai complicato. Descriverne il tratto, senza inciampare nella retorica disfatta del ragazzo del Sud che ce l'ha fatta, può risultare impervio. Occuparsene oggi, nel momento in cui il suo talento migra da Partenope alla volta della Fiorentina, non mi pare propriamente agevole. Se poi ci metto il carico del mio conclamato ardore juventino, mi sento come chi debba navigare il Pacifico a bordo di un tre ruote della Piaggio. E non è mica detto che questo mio pezzo non finisca, anch'esso, tra le braccia del ritornello de Il tempo delle more.

Tuttavia, vale la pena correre il rischio. Con sprezzo del pericolo. Perché lui, Ringhio, riesce a dribblare ogni racconto che lo riguardi. Spiazza i nostri saccenti archetipi di indolenti osservatori. Costringe all'angolo le nostre parole pigre. Così come il Gaetano di Troisi, in Ricomincio da tre, rase al suolo il rancido cliché di "emigrante", che gli si ribadiva nel corso del viaggio. Con Rino traballano le consuetudini giornalistiche e letterarie: il punto è rovesciare il terreno di gioco per manifesta impraticabilità semantica. Occorre farsi arditi, tentare altre strade.


Gattuso è la grecità: è Enea che reca addosso il corpo di Anchise; è il coraggio onorevole di Ettore, figlio di Priamo. Non solo. È mare jonico d'onda irrequieta che tramuta in fiume Clyde di Scozia. Ulisse di Itache mai rimosse. Di più: l'uomo di Schiavonea è riverbero pasoliniano del calcio come "prosa poetica" e come "ultima rappresentazione del sacro". Ringhio devasta il prototipo di facile ingaggio. E ci fa "cristiani" (come da suo copyright rivisitato). Nel senso che ci libera dall'idolatria tipica della cronaca campanilistica d'ufficio. Ci sottrae al destino impiegatizio di gazzettari.

Egli, tra l'altro, ha sempre disertato i conformismi edonistici del suo mondo: dal culto by night discotecaro della Milano godereccia alla figosità maschia d'ordinanza da elìte fisicata volta ad acchiappanze di sculettanti Veline o Letterine. Non solo: il Nostro, indubitabilmente, non ha mai ceduto alle lusinghe di quel pacchianissimo provincialismo, in nome del quale, se nasci a Botricello, fingi di essere di Gardone Val Trompia, con tanto di " Ciao nè!".

Per questo, Gattuso, ancorché ruvido, non può dirsi "tamarro". Di quelli, per intenderci, che quando fanno rientro al paesello in agosto, rivolgendosi all'elettrauto, ex compagno di scuola a Sant'Agata o a Roggiano, lo interrogano cosi: "Ti te set minga de Milàn?" Il centrocampista dallo sguardo di carbone non ha mai contraffatto l'identità primigenia né professato abiura della sua calabresità. Le cose, però, a questo punto si complicano.

Devo riavermi. Mio Dio, ho appena sfiorato il rischio di schiantarmi contro la strofa di Gente di Fiumara. Dicevamo? Ah, ecco: la calabresità. Nel caso di Gennaro, non si tratta di mera rivendicazione dell'appartenenza geografica. Lui non ha mai subìto "l'ineluttabilità" delle origini. Tutt'altro: le ha prese in carico perché non lo abitassero semplicemente, abitandole a sua volta. Le ha rese assertive e possibili nel loro dispiegarsi. Le ha tradotte in azione. In Visione. Magnificandole.

Non si illudano quanti vorrebbero intrupparsi tra gli emuli di Rino per il solo fatto di provenire da Sangineto o da Pietrapaola. Non è che mi diventi omerico soltanto in nome e per conto del condiviso senso per la sardella! E non s'illuda, soprattutto, la politicanza nostrana, quella sì, archetipica delle mancate virtù dei calabresi, di poter tentare accaparramenti simbolici dell'Uomo per improbabili restauri di diroccate etiche. Giù le mani da Ringhio, cui non assomigliate e che non vi somiglia. Non c'è partita per voi altri banconisti di fregnacce a buon mercato. Lui è un'altra storia. Da mediano di rottura e sparigliatore del gioco avversario, da irriducibile combattente disse ai suoi: "Voglio vedere il veleno!"(forma più blanda dell'imperativo calabro "devi buttare il veleno", che vuol dire "devi faticare come un dannato"). E poi, soltanto ieri, c'era Napoli, latitudine del mondo che è, essa stessa, il mondo. Napoli: irrinunciabile, magnetica, imprudente. Alchemica, necessaria come il destino. Sacrilega come la vita. Quella Napoli che dimorerà per sempre nel cuore di Rino.

Aiuto! Sto virando verso il pistolotto piagnone sui mandolini dei Camaldoli. Altro che Mino Reitano! Devo chiudere questo tormentatissimo pezzo, prima che la parte campana di me reclami la modica quantità di uno spartito di Gigi D'Alessio. Alè! Fine. Ce l'ho fatta!

Giornalista
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