La provocazione

Sanremo 2022, la giaculatoria del “politicamente corretto” che condanna al patibolo il talento

Una nutrita pattuglia di bigotti e di falsari dei buoni sentimenti ci ha tenuto in ostaggio durante la settimana del festival. Per godersi in grazia di Dio due o tre canzoni bisogna pagare il "pizzo" ai soliti pedagoghi formato tessera

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di Antonella Grippo
5 febbraio 2022
13:04

Dopo una settimana di pistolotti dall'Ariston, mi pare di capire che non sei più libero di goderti in grazia di Dio due o tre canzoni, senza aver prima pagato il "pizzo" ai soliti pedagoghi formato tessera, che pretendono di amministrare le anime italiche dal basso del loro smunto breviario. Che palle, ragazzi!

Laddove tu voglia smarrirti dentro un ritornello di Morandi, ti ingiungono, contestualmente, la "mazzetta" didascalica. Come dire, se non ti sciroppi le rampogne di Saviano, col cavolo che ti fanno accedere alle strofe di Irama! Insomma, per lambire i languori di Elisa, devi esibire il green pass del "politicamente corretto".


Stanti così le cose, siamo ostaggio di una nutrita pattuglia di bigotti asservita al Verbo del melenso mainstream. Non solo. I falsari dei buoni sentimenti, in perenne adorazione della poetica d'ordinanza protofemminista e similimmigarzionista, hanno decretato la condanna a morte dell'Arte che- per definizione- non si lascia ammansire dentro la camicia di forza dei più untuosi precetti. Di più: l'Arte ama disabitare gli abiti che i culi mosci del "pensiero" al mirtillo vorrebbero imporle. Le cicoriette dell'Innocenza Progressista non amano il guizzo, l'uscita in mare aperto.

D'altra parte, i sermoncini da parrocchieta del Sacro Costato di provincia ne sono testimonianza. Le vestali del "banalino di coda" si muovono con fare mellifluo. Alla stregua di ambulanti della Virtù Pubblica, sono solite allestire le loro bancarelle sulla piazza della tv dello Stato. Rionale e segregante.

Ma davvero si ritiene che il cianciare prolisso e piagnone di Lorena Cesarini sul razzismo, la quaresimale della pur metafisica Drusilla, la favola calabro-brasilera di Zalone con la maestosa soppressata derubricata a simbolo fallico possano ancora stupire o piroettare come fuochi di talento? Davvero abbiamo bisogno di assicurarci le indulgenze plenarie, pagando il pegno della genuflessione ai suddetti santini? L'osannato Checco del Tavoliere, nella specie, più che oltraggiare la teologia del "politically correct" si è limitato a fustigare vizi e pregiudizi del povero, sfigato italiano medio. Reo, a quanto pare, di ogni nefandezza. Zalone lo ha fatto in perfetta sintonia con la messa cantata del Piccolo coro dell'Antoniano di Bologna. D'altro canto, lui è un comico. Altra cosa è l'irriverenza.

La blasfemìa, quella che ti indurebbe a portare l'attacco al cuore dell'ipocrisia imperante. E che ti farebbe dire, per esempio, che è lecito chiamare "insulsa" una donna e che nessuna di noi può godere dell'immunità ovocellulare, qualora ci venga diagnosticato- irrevocabilmente- un certo pallore neuronale o una mancata consuetudine con qualsivoglia prestazione artistica. E che, parimenti, esistono molti omosessuali fessi sul piano canoro e poetico, dal momento che ai gay, solo perché gay, non può essere riconosciuto d'ufficio il genio maledetto di Rimbaud e Verlaine. L'accusa di sessismo, in realtà, terrorizza i più. Sicché, tutte le titolari di patonza, in quanto tali, per malinteso logos aristotelico, sono da considerarsi guizzanti e sveglie come la De Beauvoir. D'altro canto, scegliere solo quelle brave pare brutto. Se vuoi davvero sovvertire l'ordine costituito, prova a dubitare del fatto che non basta aver fatto qualche fiction per governare la Parola ritmica del soliloquio amletico.

Le anime belle non ti perdoneranno l'azzardo. In sintesi, questa tv bacchettona, che pretende di evangelizzare al ribasso le masse, è roba bollita. In confronto, l' "ancien régime" di via Teulada degli anni'60 sembra il dadaismo di Duchamp. Tanto è vero che il democristo Bernabei seppe ammaestrare le coscienze del Bel Paese in modo chirurgico, attraverso le mentite spoglie del dottor Manson (Alberto Lupo) de La Cittadella di Cronin. Mike Bongiorno e la fenomenologia dell'everymen, poi, fecero il resto. Al contrario, dall'Ariston, oltre vent'anni dopo il 2000, solo una sonnolenta giaculatoria per ricordarti che, se osi sporgerti fuori dallo spartito dall'eucarestia omologante, sei fottuto!

Prendete e mangiatene tutti. A questo punto, c'è da vendicare la canzonetta, dal momento che, in tempi non sospetti, è stata davvero più rivoluzionaria del 18 Brumaio di Karl Marx. Vilipesa, oltraggiata, presa a schiaffi non solo da direttori artistici mollaccioni, ma, di contro, anche dai chierici delle "solenni" accademie filologiche. Ingiustamente censita come genere letterario basso, la canzonetta è sedimento di sapienza. Scintilla di memoria. Magnifico paganesimo lirico. Deità popolare. Pasolini ne riconobbe "il potere magico", abiettamente poetico. Edmondo Berselli, nel monumentale saggio a riguardo, le accorda il rango di manufatto produttore di società e di grandi rivolgimenti.

Del resto, Mina e Celentano, definiti "sublimi plebei" da Giorgio Bocca, non decostruirono forse i codici precedenti del cantar leggero di Papaveri e papere, grazie all'insurrezione dei loro corpi scenici dinoccolati e struggentemente erotici? Quando Gino Paoli lasciò che il cielo traslocasse in una stanza di amore empio, non sventrò forse il tetto delle retoriche svenevoli dell'epoca per declinare, finalmente, l'amore da sottotetto con una prostituta, senza rose, smancerie e promesse di roboanti eternità? Dentro e fuori Sanremo, le canzoni hanno rappresentato la partitura collettiva in grado di scandire i tempi e i modi delle nostre sentimentalità. Da un altro Ariston, non fu forse il sacrilego Vasco a statuire il consumo democratico di vite spericolate, "di quelle che non dormi mai"? Così come, in successione, toccò a Loredana sparigliare, mentre, incinta di se stessa e con tanto di pancione eversivo, esibiva al mondo la maternità solista. Tutto ciò senza mai ledere i diritti costituzionali e le prudenze interclassiste del Totocotugnismo e del Romininismoalbanico.

E infine, lui. Il Divino Lucio di Un'avventura, sublime prodromo musicale dei Fiori rosa e di pesco mogoliani e del dolce "tedio a sdraio" panelliano. Certo, bisogna fare i conti con il primo Baglioni, cantore indiscusso dei fremiti di tutti i chierichetti di Comunione e Liberazione, in ogni dove e per sempre " accoccolati ad ascoltare il mare". Ma questa è un'altra storia. Dopo di che, invoco anch'io il brivido di Mahmood. Il che non mi non mi solleva dal compito più arduo: decifrare finalmente, dopo mille tentativi falliti, quel "non piangere, salame dai capelli verderame", vero e proprio enigma canzonettaro della mia generazione.

Giornalista
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