Un’Italia che mette la camicia bianca della retorica per nascondere quella nera della complicità. Nessun “Presente!” potrà cancellare il passato o spegnere il profumo della libertà
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Milano, via Paladini – 29 aprile 2025
Ascoli Piceno, via XX Settembre – 25 aprile 2025.
Di nuovo. Ancora. Come un incubo che si ripete. Come una verità che nessuno vuole più ascoltare.
Nel buio, le braccia si alzano. È un gesto secco, meccanico, rituale. Non hanno bisogno di pensarci, quei duemila che marciano a Milano in nome della nostalgia. Il tempo non li ha scalfiti. La vergogna non li ha toccati.
Davanti alla targa, nella via dove abitava Sergio Ramelli, si ripete la liturgia del “Presente!” come in una messa rovesciata, con i simboli runici delle SS appesi ai muri, le fiaccole accese, la compostezza livida di chi celebra l’autorità, non la pietà.
Ma una finestra si apre.
E da quella finestra — ignota, libera, irriducibile — risuona Bella ciao.
Non una provocazione. Un grido. Una veglia. Un monito.
E allora accade l’osceno.
Come belve disturbate nel cuore della notte, si voltano. Cercano il colpevole. «Scendi giù!», «Vigliacco!», urlano. Poi, un petardo lanciato contro la finestra. Contro la voce. Contro la canzone. Contro il ricordo.
È sempre lo stesso copione, in questa Italia smemorata: chi impugna la memoria viene minacciato.
Chi la insulta, viene protetto.
Qualche giorno prima, in una piccola città dell’Italia centrale, Ascoli Piceno, è successo qualcosa di più silenzioso, ma non meno potente.
Una ragazza, Lorenza Roiati, ha appeso un lenzuolo bianco sopra il suo forno, che si chiama — ironia della sorte — “L’Assalto ai forni”.
Sul lenzuolo, ha scritto, “25 Aprile: buono come il pane, bello come l’antifascismo”.
Nient’altro. Solo questo.
Un gesto lieve. Povero. Quotidiano.
Ma troppo per questa Italia che vuole un 25 aprile sobrio, neutro, depurato.
Le conseguenze?
Due visite della polizia. Un’identificazione. La pressione silenziosa dell’autorità. Il sospetto calato come una cappa sul civismo. Come se avesse esposto una minaccia, non un pensiero.
Poi, le minacce notturne.
«Da quel forno, un tale fetore...», hanno scritto i soliti ignoti, affiggendo striscioni per le strade della città.
Ma Lorenza ha resistito.
Non ha tolto il lenzuolo.
Non ha abbassato gli occhi.
Ha continuato a impastare pane e memoria, come se fossero la stessa cosa; perché lo sono.
Che Italia è questa, in cui si tollerano i cortei con simboli nazifascisti, ma si manda la polizia da una panettiera?
In cui si consente di marciare in onore di un caduto della destra neofascista, ma si censura il canto dei partigiani?
In cui si impone la sobrietà del 25 aprile mentre si legittima l’eccesso del 29?
Che Italia è questa, in cui la libertà è diventata un lusso da mendicare e non un diritto da rivendicare?
Il 25 aprile si è trasformato in un esercizio di equilibrismo istituzionale.
Si chiede ai sindaci di essere prudenti, si invita alla compostezza, si raccomanda di evitare simboli “divisivi”.
Divisiva è Bella ciao. Divisivo è l’antifascismo. Divisivo è ricordare.
E così ci ritroviamo con un’Italia che finge di onorare la Resistenza ma la teme.
Un’Italia che mette la camicia bianca della retorica per nascondere quella nera della complicità.
Ma c’è chi disobbedisce.
Una panettiera.
Un cittadino dietro una finestra.
Una persona che non abbassa il volume, ma lo alza.
Una mano che impasta la memoria come si impasta il pane.
La Resistenza non è finita.
Non perché ci siano ancora fascisti. Ma perché c’è ancora bisogno di antifascismo.
«Quanto siamo disposti a resistere?»
Questa è la domanda.
Non retorica. Non storica. Ma politica.
Perché oggi la libertà non è una medaglia da esibire una volta l’anno, ma un pane da cuocere ogni giorno.
È un canto da far esplodere contro il silenzio.
È un lenzuolo da appendere alla finestra.
È una voce che deve restare alta, anche quando ci ordinano di abbassarla.
Finché ci sarà una finestra aperta da cui parte Bella ciao,
finché ci sarà un forno che sforna pane e verità,
finché ci sarà una sola mano a impastare memoria,
nessun “Presente!” potrà cancellare il passato o spegnere il profumo della libertà.