La democrazia, quella vera, non sopravvive al silenzio. Ha bisogno di parole, di gesti, di scelte. Chi ci dice di restare a casa non vuole il nostro bene: votare oggi è un atto di resistenza
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È cominciato tutto in silenzio. Non con un proclama, ma con un invito sussurrato tra le pieghe dell’abitudine: «Restate a casa».
È così che si sbriciolano le democrazie: non con il clamore di un colpo di Stato, ma con una carezza che disarma, con una rinuncia che si traveste da libertà.
Oggi ci viene detto che non votare è un atto politico. Che l’assenza può valere quanto la presenza.
Ma io lo so, come lo sa chi non si è mai abituato al rumore del silenzio imposto, che ogni invito a non decidere è una forma mascherata di dominio.
Il Governo, con voce serena, educata, istituzionale, ha detto: non andate a votare. Non una battuta sbagliata. Non uno scivolone. Un’indicazione chiara, lucida, voluta. Antonio Tajani, Ministro, Vicepremier, uomo di vertice e di potere, ha detto: «Noi siamo per un astensionismo politico». Cioè: toglietevi di mezzo. Cioè: lasciate fare a noi. Cioè: rinunciate alla parola. Ma in quale Paese può accadere che sia il Governo — e non una frangia qualunque, ma il Governo stesso — a chiedere al popolo di non esprimersi? In quale democrazia sana, matura, orgogliosa, il potere invita alla resa?
Già nei giorni precedenti, prima ancora che le parole di Tajani squarciassero il velo, un messaggio era circolato tra le stanze discrete della maggioranza.
Non un proclama pubblico, ma una nota interna — silenziosa, disciplinata — fatta arrivare ai parlamentari di Fratelli d’Italia: esprimere dissenso disertando le urne. Un ordine mascherato da consiglio. Un sabotaggio vestito da strategia. Un invito al nulla, partito dal cuore del potere.
Il referendum non è una liturgia vuota, ma è uno strumento antico e fragile, fatto per dare voce a chi voce non ha. Per questo fa paura. Perché non si può controllare. Perché sovverte. Perché ribalta.
Perché può dire: «Questo non mi sta bene».
E allora si preferisce soffocarlo. Non dichiarandolo illegittimo — troppo plateale. Ma svuotandolo.
Dissanguandolo lentamente. Deridendolo.
Sminuendolo. Ignorandolo. Si chiama sabotaggio.
E chi lo compie, anche solo con le parole, anche solo con le omissioni, anche solo con un consiglio “educato”, compie un atto grave. Grave politicamente. Grave moralmente.
Grave storicamente. Il Presidente della Repubblica, il 25 aprile, lo ha detto: «Non possiamo rassegnarci a una democrazia a bassa densità. Non rassegniamoci all’astensionismo». Ma la densità si misura con la presenza. E oggi ci dicono che disertare le urne è una forma di partecipazione.
Che stare zitti è come parlare. Che l’assenza vale quanto il confronto. No. Questo è il linguaggio del potere che ha paura. E la paura del potere è la forma più pericolosa del dominio. Il referendum dell’8 e 9 giugno non è un dettaglio. Non è una formalità. Parla di lavoro, di cittadinanza, di diritti, di dignità. Parla di quei corpi che muoiono nelle fabbriche, di quei nomi che non diventano mai italiani, di quelle esistenze che restano sempre precarie, marginali, invisibili.
E proprio su questi temi, il potere ha deciso di tacere. O, peggio, di invitare al silenzio. Ma la democrazia, quella vera, quella che non si fa con le conferenze stampa ma con la fatica della coscienza, non sopravvive al silenzio. Ha bisogno di parole, di gesti, di scelte. Ha bisogno del rumore dei passi verso un’urna. Ha bisogno del coraggio di un “sì” o di un “no”. Non importa come voterai.
Ma vai. Non per senso del dovere. Non per ideologia. Ma per rispetto verso ciò che resta di vivo in questa Repubblica fragile: la possibilità che il popolo decida. Votare oggi non è un gesto. È un atto di resistenza. È un atto poetico. È un atto d’amore civile, il più semplice e il più rivoluzionario.
Perché chi ti dice di restare a casa non vuole il tuo bene: vuole il tuo silenzio. E io, oggi, ti invito al contrario. Parla. Vota. Disturba.