“Donne non si nasce, lo si diventa”, la nostra Costituzione contro ogni restaurazione del patriarcato

Le recenti dichiarazioni di autorevoli esponenti politici italiani che richiamano come modello di famiglia quello adottato nell’Ungheria di Orban, con la donna nelle sue vesti di madre e devota, non possono che suscitare preoccupazione

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di Ugo Adamo
28 agosto 2022
09:07

Perché richiamare in un titolo una delle più celebri, iconiche, tesi di Simone de Beauvoir esposte magistralmente in quell’opera fondamentale che è Il secondo sesso (Il Saggiatore 1961)? Troppo poca cosa sarebbe il solo fine di attirare l’attenzione del lettore; lo si fa anche per stimolare l’attenzione verso quanto si sta dicendo, ormai insistentemente, sul corpo delle donne durante questa campagna elettorale agostana.

Che ormai il corpo, in special modo quello femminile, sia sempre più oggetto di contesa politica – e non solo in Italia – è cosa nota; ha solo qualche mese la decisione della Corte suprema statunitense di dequotare l’aborto da (certo) diritto fondamentale a (incerto e al momento solo potenziale) diritto legale. Ma le recenti dichiarazioni di autorevolissimi esponenti politici italiani che richiamano come modello di famiglia a cui guardare con interesse quello adottato in Ungheria, con la donna nelle sue vesti di madre e devota, non possono che suscitare se non proprio una preoccupazione almeno un legittimo turbamento.


Il modello ungherese (chi scrive deve ammettere che dubitava che l’Ungheria di Orbán potesse anche solo rappresentare un modello, se non di tipo negativo) guarda alla donna come madre generatrice di prole, che, per tale status biologico, viene financo esentata dalla tassazione se procrea fino a quattro figli. È un modello che garantisce bonus e sostegni finanziari alle giovani donne, ma solo se sposate. È un modello che sembra ispirare anche chi ha rivendicato, pure in castigliano e a gran voce, la propria appartenenza alla categoria di donna, madre e pia. Si rimane sconcertati perché si pensava che appartenesse a un passato ormai lasciato alle spalle la “riduzione” della donna alla sua dimensione di “destino”.

La donna, come l’uomo, è portatrice di interessi, ma soprattutto di diritti e doveri, anche se il principio di non discriminazione tra i sessi è sempre più relegato al mero aspetto formale e fatica a ricoprire quello di forza rivoluzionaria in grado di garantire una eguaglianza che sia di tipo anche sostanziale.

E allora forse non è tanto strano che (anche) in questa campagna elettorale, non accada di ascoltare parole ferme e chiare sulla quantificazione del tempo dedicato alla cura, sul riconoscimento e sulla tutela dei tempi della vita quotidiana, sulla parità salariale (e non solo del salario minimo), sul rispetto del principio di autodeterminazione e della salute della donna: non sarebbe difficile, d’altronde, si potrebbe partire da dati conosciuti, come quelli riportati nel Rapporto ISTAT del 2019 intitolato proprio “I tempi della vita quotidiana. Lavoro, conciliazione, parità di genere e benessere soggettivo”.

Non servono letture impegnative – sotto un instabile cielo estivo – per capire che il calo demografico del nostro Paese non deve seguire una strada tanto discriminatoria quanto ottocentesca. Non si sentiva proprio la necessità di sentirsi riproporre la visione di una donna che non aspira a emanciparsi da una storia di minorità che ritorna ciclicamente e nella quale viene ricacciata. Nel nostro ordinamento – che se anche formalmente abbatte (molte seppure non tutte) le barriere – i tetti di cristallo (che esistono pur se invisibili) sono tanti, ancora troppi. Alcuni ostacoli, però, si vedono e non si può proprio far finta di non sapere che una discriminazione interessa anche il diritto alla salute, “fondamentale” per eccellenza. E infatti, un lettore ben guidato potrebbe imbattersi nella lettura di una recente ricerca condotta mirabilmente da Chiara Lalli e Sonia Montegiove (Mai Dati. Dati aperti (sulla 194), Fandango Libri 2022), nella quale si dimostra, facendo ricorso a dati statistici, come l’obiezione di coscienza degli operatori sanitari renda l’aborto una chimera, in special modo nel Sud d’Italia e in modo particolare in Calabria.

Ma altri ancora sono i dati noti – e di recente richiamati dall’autorevole sociologa della famiglia Chiara Saraceno – che possono comunque essere ricordati per denunciare la permanente discriminazione fra sessi: il 50% delle donne in età lavorativa non lavora e quando ha un impiego questo ha una retribuzione inferiore rispetto a quella del collega uomo che svolge la medesima mansione.

Questi dati, e altri, confermano il dato di fatto che si è sempre più lontani (non solo dal punto di vista temporale) dagli anni ’70; quelli della tanto vituperata c.d. ‘prima repubblica’, anni in cui i diritti civili, ma anche quelli sociali, hanno trovato riconoscimento, seppur non pieno.

Oggi più di ieri deve crescere la consapevolezza che i diritti dopo essere riconosciuti devono essere rivendicati, in special modo quando si vive da lungo tempo in un regime democratico per cui, dando tutto per scontato, alto può risultare il rischio dell’«assuefazione ai diritti» (G. Zagrebelsky, Imparare democrazia, Einaudi 2007).

Quando si discorre di corpo delle donne e dei loro diritti, si deve sempre avere chiaro che non basta essere donna per essere femminista. Anche questa considerazione dovrebbe essere assodata (di un certo interesse è il dibattito ospitato da diversi giorni su La Repubblica sull’importanza o meno di avere una donna “al potere”). Bisognerebbe allora rendersi conto che ci sono donne che non mirano ad assicurare gli interessi delle altre donne. Basti pensare alla circostanza per cui le donne non votano per le donne, perché queste non sono portatrici di interessi particolari; sono madri e donne senza figli, imprenditrici e operaie, studentesse e lavoratrici, di destra e di sinistra. Non tutte le donne, del resto, hanno come aspettativa quella di essere madri e cattoliche, e non tutte «diventano donne». Non tutte sono femministe e non tutte si vedrebbero “realizzate” con una “prima donna” a capo di un qualsiasi ente o istituzione. Troppo poca cosa, questa, davanti alla condizione reale della donna, che continua a vivere un “destino” che è definito dalla sua condizione sociale e storica e non certo dal suo status biologico e psicologico.

E allora bisogna ritornare alla lettura de “Il secondo sesso” per comprendere che l’individualità della donna non può più rappresentare un polo negativo, una alterità. La divisione dei sessi è un dato biologico, non un momento della storia umana. Il fatto è che gli uomini non avrebbero potuto affermare la supremazia sulla donna se non l’avessero oggettivata, fondandola sull’assoluto e sull’eternità: hanno cioè cercato di trasformare in diritto il loro privilegio. Se quello di “donna”, così come quello di “femminile” costituisce il precipitato storico e culturale delle nostre società, il moto di “emancipazione” non può che essere collettivo, e in questo processo evolutivo non si possono che stigmatizzare i rinvii che si fanno – per ritornare al “metodo ungherese” – alle democrazie “illiberali” e alle “cantilene andaluse” («Yo soy …»); modelli, questi, così lontani dalla Carta costituzionale, che a distanza di 70 anni continua a essere portatrice di una sua potenza creatrice di eguaglianza e di emancipazione dalle potenzialità ancora tutte da realizzarsi.

Oltre all’art. 36 della Costituzione, è anche la grande letteratura a venirci incontro; Virginia Woolf (Una stanza tutta per sé, Feltrinelli 2013) è fra le prime (nel 1929) a chiarire che solo attraverso l’indipendenza economica assicurata da un lavoro dignitoso è possibile liberare la donna dal condizionamento della società patriarcale. Tutto il contrario di quanto proposto dal “modello” ungherese, dove la donna continua a vivere in un mondo in cui gli uomini le impongono di assumere le parti dell’Altro, la irrigidiscono in una funzione di oggetto, trasceso da un’altra coscienza essenziale e sovrana, quella dell’uomo appunto. Ed è proprio per questa alterità oggettivata che si è presupposto che pesi sulla donna un “destino” iscritto nella biologia, nella psicologia, nella filosofia e nell’economia. È la questione (storica) della donna come l’Altro, che si determina e si differenzia, cioè, in relazione all’uomo.

Gli “scivoloni” (sempre che tali siano) sul richiamo al “modello ungherese” sono subito stati ridotti a prese di posizioni trancianti dagli incalcolabili (e angoscianti) problemi sociali e dalla stessa tenuta democratica del corpo sociale per le conseguenze dovute all’impennata del prezzo del gas, anche attraverso l’espediente retorico del benaltrismo, che cerca di eludere un problema sostenendo che ce ne sono altri più importanti. Ricordiamo, però, che l’uno (il problema economico) non esclude l’altro (la salvaguardia dei diritti); quest’ultima affermazione dovrebbe costituire un punto fermo per qualsiasi forza politica che miri a guidare il nostro Paese con autorevolezza e “patriottismo”, quello costituzionale, però.

Agosto è per molti lettori il mese dedicato alla “letteratura gialla”, ma magari su consiglio del proprio libraio/a di fiducia si potrebbero frequentare altri generi letterari, e arrivare a regalarsi – oltre ai testi di Simone de Beauvoir e a quelli finora richiamati – tante letture, con la certezza che la letteratura riesce a dare tanto quanto la saggistica.

Si potrebbe, allora, leggere Rachel Cusk (Il lavoro di una vita. Sul diventare madri, Einaudi 2021), Lidia Yuknavitch (La cronologia dell’acqua, Nottetempo 2022) o – anche se in luogo della disgiunzione potrebbe impiegarsi una e di congiunzione – Annie Ernaux (L’evento, L’Orma editore 2019), per rendersi conto che la donna è altro, è tanto altro oltre al proprio status biologico; come l’uomo, del resto, ella rifugge da qualsiasi etichetta fondata sul (pre)-giudizio, ed è – lo si ripete – davvero sorprendente che lo si debba riaffermare nell’estate del 2022.

*costituzionalista DESF-UniCal

di Ugo Adamo
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