Ci sono due soli soggetti che quando combinano un pasticcio, ne fanno uno ancora più grande per nascondere il primo: i bambini fino a 9 anni e l’Unione Europea che da, quando è guidata dalla Von der Leyen, riesce a creare problemi dove non ce ne sono. C’era una volta un grande progetto, anzi purtroppo c’è ancora, tanto ambizioso quanto fallimentare, che l’Unione Europea ha deciso di inseguire con fervore ideologico e senza basi scientifiche e tecnologiche adeguate: l’eliminazione progressiva dei veicoli a benzina e diesel entro il 2035. Una data vicinissima, criticata anche da un fervente europeista come Prodi, che avrebbe dovuto segnare la svolta epocale verso una mobilità sostenibile, ma che si sta rivelando, giorno dopo giorno, un miraggio autoreferenziale, un gravissimo errore strategico ed un grandissimo pasticcio.

L’Ue ha deciso, non si sa bene sulla base di quali evidenze e quali progetti a lungo termine, di chiudere una strada, quella della motorizzazione tradizionale, senza avere né una valida alternativa tecnologica, né tantomeno un piano energetico credibile per sostituirla in un lasso di tempo così breve. Nel frattempo, fuori da Bruxelles e dalla California, l’unico altro feudo ideologicamente allineato che ha deciso di imitare questo atto di fede verde, il mondo intero continua a muoversi su motori a combustione interna. Il dato è imbarazzante: il 99,5% del pianeta non ha adottato alcun piano realistico di abbandono del diesel e della benzina.

Mentre India, Cina, Africa, Sud America e buona parte degli Stati Uniti pianificano semmai un potenziamento della propria rete logistica e automobilistica, l’Europa decide di amputarsi da sola il mercato dell’auto, uno dei suoi pochi settori in cui manteneva ancora una rilevanza globale ed in cui l’export era un motore di ricerca e sviluppo. Ha fatto come quell’uomo molto furbo che per fare dispetto alla moglie si è tagliato l’uccello. Il risultato di questa scelta insensata è stata una crisi del settore automobilistico che ha colpito con forza brutale proprio il cuore industriale del continente, la Germania, ed ha colpito anche le aziende italiane che fornivano tecnologie e componentistica alle industrie automobilistiche tedesche. Interi distretti produttivi stanno chiudendo, le vendite crollano, i marchi storici arrancano. La catena di fornitura si spezza, la domanda ristagna, e mentre milioni di famiglie si trovano impossibilitate a passare a un’auto elettrica per motivi economici e logistici, il settore subisce un colpo he è a un tempo economico, sociale e strategico.

E mentre l’industria automobilistica si svuota, mentre tra qualche anno i cittadini europei viaggeranno in scatole elettriche cinesi, qualcosa si muove in un altro settore: quello della difesa, ovvero il pasticcio più grande. A Berlino, capitale simbolica della produzione automobilistica europea, si inizia a parlare di “economia bellica responsabile”, di “riconversione strategica”, di “rilancio industriale attraverso la difesa”. La domanda sorge spontanea: quella del riarmo tedesco, che evoca anche ricordi non proprio luminosi, è davvero una risposta geopolitica al riassettoglobale, o è piuttosto il tentativo di rimettere in moto una macchina economica che l’ideologia ecologista ha bloccato troppo frettolosamente? Penso la risposta sia molto semplice ed immediata, oltre che intuitiva.

La Germania è, infatti, il primo paese che abbraccerà il piano di riarmo. Il punto più paradossale di questo nuovo riarmo industriale europeo, e tedesco in particolare , è che manca un nemico plausibile contro cui riarmarsi. L’Unione Europea si comporta come se stesse per affrontare una guerra totale, ma non riesce a fornire una narrativa convincente sul perché e sul contro chi. La Russia è stata, negli ultimi anni, l’alibi perfetto. Ma oggi, a più di due anni dall’invasione dell’Ucraina, quell’alibi comincia a mostrare le crepe, anche perché nel mondo ci sono stati, come Israele, molto più violenti ed aggressivi. Ma volendo credere alla narrazione della Ue a trazione baltica, questa idea mostra crepe, non tanto perché Mosca non sia un attore aggressivo o imprevedibile, ma perché non ha senso logico o strategico costruire un arsenale convenzionale per illudersi pareggiare un avversario che possiede circa 5.700 testate nucleari (fonte: SIPRI, 2024).

Nessun paese europeo, nemmeno sommando i bilanci della Nato, può realisticamente pensare di eguagliare il deterrente atomico russo, ameno di voler entrare in una nuova corsa agli armamenti intercontinentale che richiederebbe, non anni ma decenni, non 800 miliardi, ma trilioni e trilioni di euro, oltre che una nuova dottrina militare globale. E se la minaccia russa non può essere contrastata con i carri armati Rheinmetall o i droni a produzione accelerata, allora a che serve davvero questo riarmo tedesco? La verità è che si tratta di una gigantesca riconversione industriale mascherata da necessità strategica.

Un tentativo disperato, e poco trasparente, di far ripartire l’economia tedesca dopo il collasso del suo settore più potente: l’automotive. Ma nessuno sembra volerlo dire ad alta voce, anche se ormai lo hanno capito in molti. I titoloni, mentre si consuma un massacro senza precedenti a Gaza, ancora parlano di “riarmo per solidarietà con Kiev”, “difesa europea”, “indipendenza energetica” e “resilienza strategica”. Ma dietro questi slogan si nasconde, però, un dato brutale: l’industria tedesca aveva bisogno di una guerra per giustificare la sua metamorfosi. E un’economia costruita su questo tipo di narrativa è inquietante quanto fragile. La popolazione, intanto, sia a destra che a sinistra, non sembra più credere al racconto epico del nemico alle porte. Ma poi è la stessa propaganda a smentire se stessa. Propinando incessantemente le immagini degli stoccaggi nucleari russi e dei missili ipersonici che impiegano 12 minuti per raggiungere Berlino, la narrazione guerrafondaia non fa che mostrare al mondo che nessun Leopard potrà mai costituire un deterrente credibile in poco tempo. Ma il gioco, che paghiamo naturalmente noi in termini di tagli a welfare e salute, continua. Perché, come nei migliori disastri infantili, quando si rompe un oggetto importante, non lo si ripara: lo si nasconde sotto il tappeto, sperando che nessuno se ne accorga.