Solitamente le elezioni sono viste per lo più come un fastidio: propaganda assillante, file ai seggi, soliti discorsi da comizio. In Calabria, invece, sono attese come una ricorrenza lieta, quasi un Natale fuori stagione. Non per i programmi (quanti li leggono?), ma per l’atmosfera magica: sorrisi, strade asfaltate, porte aperte.

Il resto dell’anno l’elettore è pressoché invisibile. Quando arriva la campagna elettorale, però, diventa improvvisamente un personaggio di spicco. Lo chiamano al telefono, lo invitano a pranzo, qualcuno si ricorda persino del suo compleanno. È il momento in cui il cittadino scopre di contare. Poco, certo, ma tutto sommato abbastanza.

Ecco perché molti, sottovoce, confessano un sogno: elezioni ogni anno. Non più attese quinquennali, ma un ritmo più serrato, una festa ricorrente. Dopotutto, quando c’è la campagna, tutto si muove. Si riempiono le buche storiche, si annunciano ospedali, si promette perfino la banda larga. È un miracolo che dura il tempo di un voto, ma che basta a scaldare i cuori.

Il calabrese, dal canto suo, non si accontenta del primo che passa. È abile negoziatore, sa che il suo voto è valuta preziosa. Non lo promette subito: aspetta, misura, confronta. Tiene il politico sulla corda, come il pescatore che non tira subito la lenza. Deciderà alla fine, dopo essersi tolto qualche soddisfazione.

Ci sono famiglie che, nelle settimane del voto, sembrano gestire una piccola borsa valori. Ogni promessa pesa come un titolo azionario: chi offre di più, chi garantisce meglio, chi ha la rete più solida. Non è questione di ideologie, ma di pragmatismo. Altrove si discute di transizione ecologica; qui, più modestamente, di chi farà finalmente riparare il lampione sotto casa.

Se davvero si votasse ogni anno, la Calabria diventerebbe la regione più vivace d’Italia, forse anche la più felice. A gennaio l’asfaltatura, a marzo la nuova sede dell’associazione sportiva, a giugno un concorso per sistemare il nipote, a settembre il finanziamento per la festa patronale. Una liturgia distribuita con ordine, come un calendario dell’Avvento che non finisce mai.

Il problema, forse, è che questi desideri non sono quasi mai quelli giusti. Ci si accontenta del favore personale o della toppa momentanea. Manca la visione d'insieme, la richiesta che potrebbe cambiare davvero la vita di una comunità. Così la giostra gira, ma sempre attorno allo stesso vuoto: un popolo che desidera troppo in piccolo e troppo in fretta, rinunciando al futuro per un presente che si consuma all’istante.

Se ci si pensa bene, molti non si aspettano neanche che le promesse vengano mantenute. Basta riceverle, ascoltarle, sentirsi al centro dell’attenzione. L’illusione è sufficiente: l’idea che, almeno per un mese, tutto sia possibile. Forse un teatrino, sì, ma capace di rendere più leggera la disarmante immobilità del resto dell’anno.

E allora, se dipendesse dai calabresi, le urne non resterebbero chiuse a lungo. L'elezione annuale sarebbe celebrata con la stessa solennità della festa del santo patrono. Una tradizione che garantirebbe non tanto il governo, quanto la promessa di essere governati. Non il cambiamento, ma la speranza di poterlo chiedere ancora, ogni dodici mesi. Alla fine, cos’è la democrazia se non il diritto di desiderare? In questo, noi calabresi siamo forse i più coerenti: non cerchiamo il futuro, ma il rito che lo rinvia sempre di un altro anno.