L’attesa della fine, l’alba di un nuovo inizio

Solo se saremo capaci di percorrere la via della solidarietà, giocando sul binomio esclusione-inclusione, senza più opzioni o alternative, salveremo, davvero, il mondo da una catastrofe certa

di Caterina Capponi
7 dicembre 2020
16:17

This is the end, This is the end, The end of our elaborate plans

The end of everything that stands
The end

No safety or surprise
The end
I'll never look into your eyes again

 


Questa è la fine, scriveva l’ultimo poeta maledetto Jim Morrison, il paroliere dei Doors, nel brano The End,  Francis Ford Coppola lo scelse per l’apertura di Apocalypse Now; pellicola del 1979 tra le più celebri, sulla Guerra del Vietnam, liberamente ispirato al romanzo dello scrittore inglese Joseph Conrad -Cuore di tenebra-sulle ombre ed inquietudini della civiltà europea di fine Ottocento.

 

E mentre  il giorno declina, la notte cresce; …la clessidra si vuota, i versi dell’orologio di Charles Baudelaire, suonano il rintocco inesorabile, di un anno  che si appresta alla sua naturale conclusione.

 

Drammatico, crudele, funesto, il 2020, lo ricorderemo, come l’anno del lockdown e delle rigide restrizioni.

 

Per alcuni versi, i dati dei contagi, l’assenza di una cura per un virus letale, i disastri dell’economia mondiale, ad un tratto fecero temere l’inizio di una repentina decadenza dell’umanità, degna di una non ben precisata rappresentazione escatologica.

È indiscutibile, siamo di fronte, alla fine di “un periodo aureo” dell’esistenza, che ci ha imposto una rigida ristrutturazione interiore, oltre a guardare al di là delle debolezze, delle fragilità umane, per filtrare eventi ed accidenti, alla ricerca dell’essenzialità.

Forse ancora, la fine dell’infanzia della storia, di tutto ciò in cui abbiamo creduto in modo innocente e immaturo.

Eppure, abbiamo subito pazientemente la sua parte più dolorosa, un anno di affetti lontani, privati della socialità, dell’incontro, dello sguardo nel volto dell’altro, la precarietà della vita, addirittura la morte.

Ma le persone dapprima e l’immaginazione collettiva poi, l’hanno presto identificato, riconosciuto e rappresentato simbolicamente, come l’unico vero bisogno negato: l’abbraccio.

Ebbene, un’epidemia dalla dimensione mondiale e dalle conseguenze, non sconosciute ai paesi più poveri, si ricordi l’inizio della prima di Ebola nel 2013, in Africa occidentale.

 

L’Italia come molti paesi europei, “ricchi e beoni”, si è mostrata impreparata, confessando di essere fallace laddove è incapace di tutelare  il diritto alla salute delle frange più deboli.

 

Pandemia, evento inaspettato, imprevedibile, ineluttabile effetto collaterale, di una “società liquida”, indissolubilmente globalizzata e connessa, ma d’altro canto, incapace di comprendersi come  organismo unitario, di cui tutto ciò che esiste è parte.

 

Solo se saremo capaci di percorrere la via della solidarietà, giocando sul binomio esclusione-inclusione, senza più opzioni o alternative,  salveremo, davvero, il mondo da una catastrofe certa; in un  sfida etica per la sopravvivenza delle prossime generazioni: la medesima  scelta- che Hanna Arendt- ritenne indispensabile- tra solidarietà di un’umanità comune e solidarietà di una reciproca distruzione- all’indomani della Seconda guerra mondiale.

Un’epidemia inesorabile e tremenda , dunque, al pari di quella che Albert Camus stigmatizzò nel suo romanzo La Peste (1947), in cui si racconta di un’umanità in bilico tra disgregazione e solidarietà, e dal quale traiamo il monito fin troppo attuale e aderente alla vicenda presente,  vissuta oltremodo e tragicamente:

Io ne ho abbastanza della gente che muore per un’idea. Non credo nell’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano”.

 

Non abbiamo più la necessità di eroismi romantici, siamo uomini e donne comuni, con il più profondo bisogno d’amare ed essere amati.

di Caterina Capponi
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