In estate la pelle può bruciare, scottare, qualche volta però, può accadere che sia l’anima ad incendiare.

Nella stagione delle feste notturne, si vive fino alle prime ombre dell’alba, in quel chiarore poetico. In questo universo infuocato certamente Cesare Pavese è l’osservatore più audace, che se ne sta silente davanti alle colline arse, al caldo.

L’estate, per Pavese, è l’intervallo, l’attesa di un qualcosa che forse tarderà ad arrivare, è il miraggio, corpi di giovani che si rincorrono tra i filari e che abbandonano dietro di sé solo polvere e rimpianto. L’amarezza aguzza che percorre ogni paesaggio estivo della sua scrittura.

Eppure, in questa luce muta, c’è una forma di scoperta. Pavese è verità ritrovata, in cui l’anima si spoglia e si misura con il senso ultimo dell’esistere. Gli amori taciuti, le fughe mai compiute, si immergono nei giorni e nei pomeriggi infiniti.

Cesare Pavese ha saputo udire l’estate come periodo intimo, come stagione dell’anima, in cui, il calore è attesa, i paesaggi sono simboli di allegorie, la luce è una domanda all’esistenza. Tutto si sciupa nella calma, pigramente, come un sogno irrealizzabile.

E così - mentre gli amici festeggiano l’estate in spiaggia davanti a un falò e le coppiette vanno in cerca di fughe romantiche e di baci sulla sabbia - Pavese ci annuncia una stagione discorde. Un’estate fatta di memorie, ma anche di distanze, dove il tempo si sveste di ogni esteriorità, si paragona con la verità più nuda: quella che nessuna luce, per quanto abbagliante, può nascondere la nostalgia che ognuno di noi può portarsi dentro.

Tu sei come una terra

che nessuno ha mai detto

tu non attendi nulla

se non la parola

che sgorgherà dal fondo

come un frutto dai rami.

C’è un vento che ti giunge.

Cose secche e rimorte

t’ingombrano e vanno nel vento.

Membra e parole antiche.

Tu tremi nell’estate.

(CESARE PAVESE)