La nomina della direttrice musicale alla guida della Fenice diventa il simbolo di una meritocrazia evocata ma raramente applicata, rivelando il peso delle appartenenze politiche e della visibilità mediatica sulle competenze reali e incrinando la fiducia nei nostri rappresentanti istituzionali
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Nell’immaginario collettivo la meritocrazia continua a risplendere come un ideale regolativo, restando così, più che un criterio, un auspicio; più che una struttura, una nostalgia di ciò che potrebbe essere e raramente è.
Il paradosso contemporaneo è che mai come oggi si invochi il merito, mentre mai come oggi la sua applicazione appaia intermittente, selettiva, talvolta addirittura strumentale. Il che rivela una contraddizione sistemica: siamo una società che si proclama meritocratica ma che continua a muoversi secondo logiche spartitorie, laddove il capitale simbolico e quello politico risultano infinitamente più determinanti del curriculum, dell’expertise, dell’autorevolezza maturata sul campo.
In questo scenario già opaco, il caso di Beatrice Venezi – direttrice musicale nominata alla guida del Teatro La Fenice di Venezia – si è imposto come una sorta di prisma mediatico attraverso cui osservare, quasi con crudezza, la frattura fra principio e prassi. L’ascesa della musicista, già nota al grande pubblico per la sua presenza televisiva e per alcune prese di posizione identitarie, è stata infatti accompagnata da un’onda lunga di contestazioni da parte di una parte significativa dei professori d’orchestra. Contestazioni non superficiali né generiche, ma radicate in una percezione diffusa secondo cui la nomina sarebbe stata più il frutto di affinità politiche e di un clima istituzionale favorevole che non la conseguenza di un percorso irreprensibile, culminato naturalmente nel vertice di una delle più prestigiose istituzioni liriche del Paese.
Il dissenso dei musicisti non si è limitato a una protesta formale: è stato il segnale di un malessere più profondo, quasi antropologico, che riguarda la percezione stessa del valore professionale all’interno delle nostre istituzioni culturali. Laddove la direzione artistica e musicale di un teatro d’opera dovrebbe essere affidata al candidato più autorevole sulla base di criteri rigorosi (produzione, competenza, esperienza, visione), la sensazione che tali criteri possano venire scalzati da appartenenze politiche o da visibilità extramusicali genera una frattura insanabile. Una frattura che mina la fiducia interna, delegittima le scelte amministrative e, soprattutto, incrina l’autorevolezza delle istituzioni, esponendole a un sospetto permanente. In primo luogo, la direttrice musicale di un teatro d'opera deve conoscere l'opera, e lei, giudicando dal suo curriculum, non ne ha una grandissima conoscenza. Come qualcuno dice: il suo è un curriculum che si può prendere in considerazione per dirigere un'opera, non per dirigere un teatro.
Il caso Venezi, al di là della persona, diventa così un paradigma: un episodio emblematico in cui il tema della meritocrazia mancata esplode nella sua forma più tangibile. Alcuni osservatori hanno sottolineato come la sua nomina rientri in un disegno più ampio, un clima culturale e politico che premia figure percepite come affini, come simbolicamente coerenti con una narrazione identitaria. Ma ciò che più pesa è la sensazione che la discussione non si focalizzi realmente sulla qualità musicale bensì sull’opportunità politica, su ciò che la sua nomina significa piuttosto che su ciò che artisticamente rappresenta.
È proprio questo slittamento dal merito al simbolo che rivela la malattia più grave del nostro tempo: l’incapacità di mantenere il merito al centro, di difenderlo dall’invadenza dei poteri, dall’astuzia delle appartenenze, dall’ombra lunga delle convenienze.
La vicenda veneziana dovrebbe allora assurgere a monito. Perché non si tratta solo di una direttrice d’orchestra contestata, né di un conflitto interno a una grande istituzione musicale: si tratta di un campanello d’allarme per l’intera società italiana, ancora troppo incline a confondere la lealtà con la competenza, l’affiliazione con il talento, la visibilità con la qualità.
La meritocrazia non è semplicemente un metodo di selezione: è un’etica civile, una forma di rispetto per il lavoro, per lo studio, per la fatica silenziosa che accompagna ogni percorso di crescita. È la garanzia che le istituzioni non siano arbitri capricciosi ma custodi imparziali del valore. Senza meritocrazia, ogni traguardo perde peso, ogni carriera rischia di diventare sospetta, ogni eccellenza appare fragile perché non pienamente legittimata.
Per questo, più che un ideale astratto, la meritocrazia dovrebbe diventare una disciplina, un rigore quotidiano, un principio inviolabile. Non per moralismo, ma per giustizia. Non per retorica, ma per necessità. Perché solo in una società che premia ciò che realmente vale — e non ciò che convenzionalmente conviene — si può ancora credere nel progresso, nella cultura e, in ultima analisi, nella dignità stessa delle nostre istituzioni.

