Un ragazzino di quindici anni si è tolto la vita. La notizia arriva come uno schiaffo. Un ragazzo, ancora quasi bambino, che invece di scegliere il proprio futuro da inseguire, ha deciso di consegnarsi volontariamente alla morte. È un gesto che spezza il fiato, che lascia un vuoto intorno, e che dovrebbe costringere tutti – adulti, educatori, istituzioni – a guardarsi dentro con una serietà che raramente si ha il coraggio di affrontare. Ci resta l'amaro di una domanda, che spesso percorre le nostre menti quando accadono eventi simili: "cosa gli sarà passato per la testa in quel momento?" Be' questo, purtroppo, non lo sapremo mai!

Dietro a un suicidio così precoce c’è sempre una sofferenza che non trova parola. È il silenzio di un adolescente che si è sentito accerchiato, soffocato, schiacciato dal peso di un mondo che non ha saputo offrirgli rifugio. In queste storie ci sono i bulli: compagni di classe, di giochi, di vita, che trasformano le fragilità altrui in bersagli, che si nutrono della debolezza degli altri per rafforzare la propria immagine distorta. Ma i bulli non nascono dal nulla. Il bullo è spesso il frutto di famiglie disgregate, dove la povertà non è solo materiale ma soprattutto affettiva. Case in cui mancano carezze, ascolto, stabilità. Luoghi dove la violenza – fisica o verbale – è la lingua quotidiana, e il bambino cresce imparando che sopraffare è l’unico modo per esistere. Il bullo, in fondo, è lui stesso una vittima: vittima di un’educazione monca, di un contesto disadattato, di un’assenza di regole sane. Ma ciò non può e non deve diventare una giustificazione: la ferita che lascia negli altri è reale, e a volte irreparabile.

Il bullismo è un fenomeno profondamente psicologico: è un meccanismo di compensazione. Il bullo cerca negli altri quello che non trova in sé; spinge a terra il più fragile per convincersi di essere forte. È il trionfo apparente dell’aggressività sull’empatia. E quando il bersaglio è un adolescente sensibile, magari più timido, più solo, quell’aggressione si trasforma in un cappio invisibile. Ogni insulto, ogni risata, ogni spinta diventa una lama. Fino a quando il dolore accumulato non trova più altra via d’uscita che la morte.

Come nel caso tristissimo di Andrea, il “ragazzo dai pantaloni rosa”, preso di mira dai compagni solo perché un capo d’abbigliamento si era scolorito. Da quella banalità è nata una persecuzione fatta di insulti, di derisioni, persino di una pagina Facebook creata apposta per ridicolizzarlo. Un gioco crudele che ha finito per diventare una tortura quotidiana, fino alla decisione estrema. Andrea è il simbolo di come il bullismo non sia mai uno scherzo: basta un pretesto, anche ridicolo, per innescare una spirale di odio capace di spegnere una vita.

Il suicidio di un quindicenne non è solo la fine di una vita: è la condanna di un’intera comunità che non ha saputo proteggere la sua parte più fragile. È l’accusa rivolta a una società che educa più all’apparire che all’essere, che lascia soli i ragazzi nei corridoi delle scuole e nei meandri della rete, senza strumenti per difendersi. È il fallimento di un mondo adulto che vede, ma troppo spesso non interviene.

Eppure, qualcosa si può fare. Si può cominciare dalle scuole, con programmi di prevenzione, con psicologi stabili, con luoghi di ascolto protetti dove i ragazzi possano trovare una voce amica. Si può lavorare con le famiglie, perché il bullismo nasce anche nelle case in cui mancano affetto e regole. Si può intervenire sulle piattaforme digitali, obbligandole a rimuovere in fretta i contenuti offensivi e a proteggere i più giovani. Si possono organizzare campagne pubbliche che parlino chiaro, che mostrino storie vere come quella di Andrea, affinché diventino monito e insegnamento.

I dati ci dicono che il problema è grave: secondo l’Istituto Superiore di Sanità, circa il 15% degli adolescenti italiani tra gli 11 e i 15 anni ha subito episodi di bullismo o cyberbullismo; e un’indagine ISTAT del 2023 ha rilevato che quasi un ragazzo su cinque subisce atti di bullismo più volte al mese. Ancora più inquietante, uno studio ha rivelato che il 50% delle vittime di cyberbullismo pensa al suicidio, e oltre una su dieci ha tentato di togliersi la vita. Numeri che non possono più essere ignorati.

C’è una tristezza sorda in queste vicende, una tristezza che non si scioglie con le frasi di circostanza. Ma ricordare questi ragazzi e combattere il bullismo significa dare un senso, almeno, a un dolore che non dovrebbe più ripetersi.

E allora il nostro compito è uno solo: vegliare sui giovani, custodirli, non lasciarli soli nel buio. Perché ogni ragazzo che muore di bullismo è un pezzo di futuro che ci viene strappato. Ed è come se la sua voce, spegnendosi, lasciasse nell’aria un appello muto: «Non permettete che accada di nuovo».