C’è una stanza, a Roma, dove il tempo si è sfilacciato come una vecchia corda. Un’aula di giustizia, i volti tesi, le parole che cadono come chiodi. Quando la presidente del collegio legge la sentenza, Roberto Saviano cede. Lo fa in silenzio. Le spalle si contraggono, il volto si arrende. Non è gioia, non è sollievo: è il peso di sedici anni che si sciolgono in un abbraccio. Uno solo, stretto al suo avvocato. Intorno, un applauso. E dentro, un vuoto.

Sedici anni per dire che era tutto vero. Che le minacce non erano “parte del mestiere”. Che non si era inventato nulla. Che vivere sotto scorta non è uno stile di vita, ma una condanna senza processo. “Mi hanno rubato la vita”, ha detto. E lo ha detto come si dice qualcosa che non si può più recuperare, neanche con tutte le sentenze del mondo.

13 marzo 2008. Aula del maxiprocesso Spartacus. Il boss Francesco Bidognetti – il “cecato” – ordina. L’avvocato Santonastaso esegue. Legge un proclama. In un’aula di giustizia, davanti ai giudici, ai cronisti, alla Storia. Non attacca i magistrati, non la politica, non le leggi. Attacca la stampa. Fa nomi e cognomi. Saviano. Capacchione. Il primo ha scritto Gomorra, la seconda firma inchieste per Il Mattino. Entrambi raccontano quello che i clan non vogliono si sappia. E proprio per questo vengono indicati come nemici, come colpevoli delle condanne. Non per quello che hanno fatto, ma per quello che hanno scritto.

Non era mai accaduto. In nessun Paese civile un boss e un avvocato avevano usato un’aula pubblica per mettere alla gogna due giornalisti. È accaduto in Italia. E c’è voluto un tempo biblico perché la giustizia riconoscesse quel che era chiaro sin da subito: era una minaccia, aggravata dal metodo mafioso. Nel frattempo, però, Roberto Saviano ha smesso di vivere. Non in senso romantico, ma concreto. Ha smesso di camminare da solo. Di prendere un caffè senza voltarsi. Di salire su un treno senza autorizzazione. Il suo corpo – come ha detto lui stesso – è diventato territorio da presidiare. Una casa perquisita ogni giorno. Un volto che per molti è diventato scomodo, fastidioso, divisivo.

C’era chi diceva: “Esagera”. C’era chi lo accusava di speculare sulla paura. C’era persino chi chiedeva di togliergli la scorta. Come se la camorra fosse evaporata. Come se certe minacce avessero la scadenza. Ma adesso c’è una sentenza. C’è un punto fermo. La giustizia ha parlato. Ha detto che quelle parole erano un atto di guerra. Non verbale. Mafioso. E che l’obiettivo non era solo Saviano: era l’informazione. Era il diritto di raccontare. Di denunciare. Di scavare dove si vorrebbe solo coprire.

E accanto a lui, oggi, c’è Rosaria Capacchione. Giornalista silenziosa, inflessibile, coerente. Una che ha fatto del mestiere un servizio, non un personaggio. Anche lei sotto scorta. Anche lei minacciata. Anche lei ha visto i propri articoli diventare prove, i propri giorni trasformarsi in sorvegliati speciali. Ma non ha mai smesso. Ha continuato a scrivere. A esserci. Con voce ferma. Con dignità. La loro è una storia italiana. Una di quelle che fanno paura perché non si possono archiviare come eccezioni. Da Pecorelli a Impastato, da Mauro Rostagno a Giancarlo Siani: ogni volta che un giornalista ha osato raccontare, qualcuno ha cercato di zittirlo. Non con le smentite. Con le minacce, le bombe, le pistole.

Oggi c’è un verdetto. Condannati Bidognetti e il suo avvocato. Pene brevi – troppo brevi, forse – ma simboliche. La giustizia ha detto che sì, la camorra ha paura della stampa. Più che dello Stato. Perché lo Stato si compra, si infila, si aggira. Ma la parola no. La parola non si può corrompere. O la cancelli. O ti perseguita. E allora, in quell’aula, tra le panche rigide e le toghe nere, è andata in scena una verità spietata: la mafia oggi non si combatte solo con le retate, ma con la luce. E chi accende la luce, paga. Saviano ha pagato. Capacchione ha pagato. Altri pagheranno ancora.

La domanda è: li lasceremo soli? Forse è questa, la vera vittoria che manca. Non la condanna a un boss già in carcere. Non il riconoscimento tardivo della minaccia. Ma una presa di coscienza collettiva. Che il giornalismo è una diga fragile, ma necessaria. Che la verità non vive di like, ma di coraggio. E allora quelle lacrime, quelle di Saviano, che scivolano nel silenzio dell’aula – non sono commozione. Sono memoria. Sono una cicatrice che ci riguarda tutti.