Salvini critica Landini per lo sciopero ma tra i due è lui quello che non ha mai lavorato

Se oggi si accetta l’idea che il diritto a incrociare le braccia sia qualcosa a cui si può “rinunciare”, o del quale si possa anche solo “discutere”, domani anche gli altri costituzionalmente garantiti potranno diventare qualcosa di cui si potrà fare a meno

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di Carlo Crippa
9 dicembre 2023
10:26

C’è la recidiva. Indubbiamente. Già il 13 luglio scorso Matteo Salvini aveva fatto il “ducetto” riducendo il tempo dello sciopero nazionale dei ferrovieri. Ha poi ridotto lo sciopero del 17 novembre, che una volta si sarebbe chiamato uno “sciopero a scacchiera”, ad uno sciopero di poche ore, per impedire che una giornata intera avesse il sapore di una manifestazione antigovernativa. E la cosiddetta “commissione di garanzia” gli ha retto la coda dichiarando, udite, udite, che «non ci sono i presupposti per uno sciopero generale» (sic). E adesso ci risiamo, con lo sciopero di lunedì 27 novembre, ridotto allo stesso modo.

La prova muscolare del ministro Matteo Salvini sul precedente sciopero del 17 novembre è stata preceduta da una polemica da pollaio, appoggiata mediaticamente dalla stampa di destra, contro Maurizio Landini, leader nazionale del più antico sindacato italiano: «Milioni di Italiani non possono essere ostaggio di Landini, che vuole organizzarsi l'ennesimo week end lungo», ha dichiarato il “ducetto” con impudenza degna di nota.


Maurizio Landini, si sa, è di origine operaia ed, a questo dato incontrovertibile, Stefano Zurlo sul “Giornale” ha intelligentemente obiettato che però la sua «ultima tuta blu», risale a quaranta anni fa, lasciando intendere che forse esiste una scadenza per la conoscenza della classe operaia e che forse Landini ha superato la data di scadenza. Ci sarà davvero una simile scadenza? Mistero.

Ad ogni modo, quando Landini ha ricordato una piccola elementare verità, cioè che Salvini non ha mai lavorato un solo minuto in vita sua, i pennivendoli di destra gli hanno risposto che lui la fabbrica l’ha vista poco.

Maurizio Landini, classe 1961, è emiliano, originario di Castelnuovo de' Monti, nella provincia bolognese. Dopo le medie non è riuscito a diventare geometra perché la sua famiglia non si poteva permettere il “lusso” - che pure, in astratto, sarebbe un diritto - di mantenerlo sui banchi di scuola.

La realtà non gli ha dunque fatto sconti e, dopo solo due anni, ha dovuto lasciare la scuola superiore per contribuire al mantenimento della famiglia. Suo padre era un cantoniere, la madre una casalinga ed i soldi non bastavano, come non bastavano quasi mai negli anni Settanta in molte famiglie.

A sedici anni, nel 1977, era operaio saldatore ed a diciotto, nel 1979, iscritto al Partito Comunista Italiano ed al sindacato. Ha fatto poi il suo “cursus honorum” nella Cgil, da delegato sindacale metalmeccanico della Fiom fino a che, il 24 gennaio 2019, è diventato segretario nazionale.

Matteo Salvini invece, nato nel 1973 a Milano da genitori milanesi, la sua carriera l’ha fatta, come è noto, nella Lega: dopo la maturità classica al Liceo Manzoni nel 1992 è diventato coordinatore dei “giovani padani” di Milano, poi consigliere comunale a Palazzo Marino, nel 1993, poi segretario di sezione, nel 1995, poi parlamentare europeo a Strasburgo nel 2004 e, dal dicembre 2013 segretario nazionale del suo partito.

Che differenza sostanziale c’è tra Maurizio Landini e Matteo Salvini? Che uno è di sinistra e l’altro di destra? Niente affatto. Sarebbe troppo ovvio e poi le distinzioni tra sinistra e destra si sono fatte ormai così sottili da essere diventate quasi impercepibili.

La differenza vera invece è che uno è un lavoratore, per giunta di origine proletaria, mentre l’altro è, per sua stessa ammissione - sia pure giovanile e perciò non confermata di recente - un «nullafacente» o, come direbbero proprio nella sua Milano, un “fanagottone”. Per questo motivo Salvini è il meno titolato a parlare di week end, lunghi o corti che siano.

Ma, una volta stabilito questo, il discorso è chiuso, perché non è qui il punto sostanziale, né dobbiamo fare un referendum di popolarità per stabilire chi dei due sia più simpatico.

E nemmeno la terza - e per il momento ultima - spacconata di Matteo Salvini è particolarmente preoccupante. È un’altra spacconata da “bauscia” - o da “falchetto”, per usare di nuovo una espressione milanese - e Salvini, ne siamo certi, ci offrirà sicuramente, sia pure non richiesto, altre spacconate del genere ma, come tutti sanno, il vuoto genera solo vuoto.

Quello che è invece davvero preoccupante è la motivazione con cui la “commissione di garanzia” ha dato ragione a Salvini sullo sciopero del 17 novembre, una motivazione che prefigura uno scenario in cui i “presupposti” per uno sciopero generale non potranno più essere determinati dai lavoratori ma da chi detiene il potere. Resta poi un mistero insoluto in base a quali parametri di pretesa “oggettività” si possano stabilire questi cosiddetti “presupposti”.

Per questa ragione riteniamo sbagliata la banalizzazione che su questo argomento ha operato Marco Rizzo, che ha criticato Maurizio Landini perché ha ritenuto che lo sciopero del 17 novembre fosse tutta una messa in scena in quanto non sufficientemente conflittuale.

Beh, nemmeno a noi Landini è piaciuto quando ha invitato Giorgia Meloni al congresso della Cgil o quando si è scusato per gli insulti della piazza di Roma contro la presidente del Consiglio e quello che dice Rizzo sarà anche vero, ma passa in secondo piano di fronte alla prospettiva che le famose “masse popolari” si possano abituare a considerare “normali” precettazioni come quella di oggi.

Se oggi si accetta l’idea che il diritto di sciopero sia qualcosa a cui si può “rinunciare”, o del quale si possa anche solo “discutere”, domani anche gli altri diritti costituzionali potranno diventare qualcosa a cui si potrà “rinunciare” e, progressivamente, si potrà arrivare a considerare anche la Costituzione stessa come qualcosa a cui si può “rinunciare”, magari in quanto “residuo” del solito fastidiosissimo Novecento, di cui sembra diventato obbligatorio liberarsi una volta per tutte.

Ma le libertà civili non possono avere limiti, se non quelli della Costituzione stessa. E noi siamo, già da adesso, molto al di là dei limiti costituzionali.         

 

di Carlo Crippa
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