Dal sogno di guidare la sinistra al ruolo di comparsa tra dittatori e generali: la parabola dell’ex premier, maestro di autocompiacimento
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C’è chi alla pensione si dedica al giardinaggio, chi si reinventa nonno modello. Massimo D’Alema no. Lui, ex premier, ex ministro, ex leader di tutto e di più, continua a coltivare la sua unica vera passione: sè stesso. E così, mentre l’Italia fatica a ricordare perfino che fu Presidente del Consiglio, eccolo sbucare a Pechino, ospite alla parata dei dittatori, sorridente come un turista d’élite nel parco giochi dell’autoritarismo.
D’Alema non si arrende mai all’anonimato. Da sempre convinto di essere il più intelligente, il più raffinato, il più tutto e di più, ha attraversato oltre trent’anni di vita politica con l’aria di chi spiega la vita agli altri dal suo piedistallo. Eppure la sua eredità politica è fatta più di frasi sprezzanti che di conquiste storiche e successi. È l’uomo che si vanta di aver creato i Democratici di Sinistra, salvo poi vederli dissolversi nel giro di pochi anni. È quello che parlava di “vocazione maggioritaria”, mentre regalava all’Italia una sinistra eternamente minoritaria. È il premier che avrebbe dovuto inaugurare una stagione nuova, ma che in realtà resta in memoria solo per il suo aplomb da professore annoiato, acido, indifferente verso il genere umano.
La scena di Pechino è perfetta per lui: in tribuna d’onore, accanto ai nuovi imperatori, a respirare quell’aria di potere che tanto gli manca. Non conta che sia la passerella degli autoritarismi, il corteo muscolare e nucleare di chi reprime nel sangue libertà e dissenso: per D’Alema l’importante è esserci, con l’abito buono e lo sguardo compiaciuto. Un Narciso che, perso lo specchio italiano, si specchia oggi nei riflessi imperiali ella propaganda cinese.
Il paradosso è che mentre Xi e Putin sfilano con i carri armati, mostrano missili e droni come giocattoli di un futuro minaccioso, l’unico pezzo di democrazia occidentale presente sembra proprio lui: un ex premier che non rappresenta solo se stesso, se non la sua nostalgia. Non un inviato, non un negoziatore, non un leader. Solo un ex che si aggira tra i dittatori come un cimelio da esibire.
D’Alema è così: non è mai riuscito a lasciare davvero la scena. Ha fallito in patria, ma non ha perso l’abitudine di sentirsi al centro del mondo. E allora, se a Roma o New York non lo invitano più, va bene anche Pechino. Perché Massimo D’Alema non è mai stato solo un politico: è un monumento a se stesso. E un monumento, si sa, può finire ovunque: in piazza, in cantina, o, come in questo caso, in tribuna d’onore tra dittatori e generali in alta uniforme.

