Non è stata una resa, ma una mossa d’attacco. Roberto Occhiuto ha annunciato le dimissioni da presidente della Regione Calabria. Lo ha fatto dal cuore di un cantiere, a Catanzaro, con un video confezionato ad arte per i social, scandito da parole che pesano come pietre: «Non ci si dimette per un avviso di garanzia, ma la mia amministrazione è paralizzata». Fine del primo tempo.
In realtà, più che il passo indietro di un governatore travolto da un’inchiesta, sembra il lancio della sua seconda campagna elettorale in tre anni. Una ricandidatura mascherata da gesto di responsabilità. O, come ha spiegato lui stesso, «una sfida ai calabresi: saranno loro a decidere, non altri». Occhiuto sapeva che la tempesta stava arrivando.

Quando l’11 giugno ha annunciato sempre sui social l’arrivo dell’avviso di garanzia da parte della procura di Catanzaro per corruzione, ha parlato di «una vicenda che non mi riguarda direttamente». Ma da quel momento in poi, ha cambiato registro. Ospite a Quarta Repubblica, da Nicola Porro, Occhiuto ribadisce di aver «governato in modo trasparente, lavorando gomito a gomito con prefetti e magistrati». E poi cerca di entrare nel merito delle accuse che considera mosse «per normali rapporti tra soci in aziende private: avrei tratto benefici per aver utilizzato una Smart e un’Audi di piccola cilindrata e aver preso delle multe che sarebbero state poi pagate dalla ditta». In Cittadella, qualche giorno dopo, ha fatto trapelare l’irritazione per lo stallo amministrativo. Poi è andato in Aula, in Consiglio regionale, dove ha recitato un copione sobrio ma incisivo: «In 56 anni non ho mai ricevuto un atto giudiziario». Ma il punto non è tanto se Occhiuto sia colpevole o innocente. Il punto è che questa vicenda ha rotto il giocattolo. La macchina del governo regionale – quella che lui ha cercato di tenere oliata con commissari, manager scelti in prima persona, e una comunicazione digitale molto efficace – ha cominciato a scricchiolare. Gli uffici temono di firmare. I dirigenti si muovono con il freno a mano tirato.

La politica, intorno, tace o borbotta. A quel punto, l’unica via d’uscita possibile era quella che Occhiuto ha scelto: azzerare tutto e rimettere in moto il meccanismo. Le dimissioni diventano così la pietra angolare su cui costruire il racconto della nuova discesa in campo. Una narrazione che guarda al centrodestra nazionale e parla anche a Forza Italia, dove la leadership è ancora un cantiere aperto. L’inchiesta di Catanzaro, coordinata dal procuratore Salvatore Curcio, farà il suo corso. Ma intanto Occhiuto trasforma la sua vicenda giudiziaria in un referendum popolare. E lo fa con uno stile che è ormai diventato marchio: diretto, spiazzante, incisivo. Un po’ da maratoneta istituzionale, un po’ da influencer politico. Ora la palla passa ai calabresi. Ma anche agli avversari, che dovranno decidere se restare spettatori o salire sul ring. Se questa è solo l’apertura della partita, c’è da aspettarsi un autunno rovente in Calabria. Perché quando la politica diventa una questione personale, tutto può succedere.

Il video che rompe il silenzio

11 giugno 2025. È un pomeriggio ordinario quando Roberto Occhiuto carica sui suoi canali social un video che cambia il tono dell’intera legislatura: “Ho ricevuto un avviso di garanzia. Non ho nulla da temere”. La voce è ferma, ma la mossa è tutto fuorché difensiva. È l’inizio di un’operazione di comunicazione studiata al millimetro. Il governatore sa bene che, in Calabria, la trasparenza preventiva può diventare un’arma politica. Il reato contestato è pesante: corruzione. L’inchiesta della Procura di Catanzaro tocca ambienti noti della sanità e della politica. Occhiuto però ribadisce di essere solo marginalmente coinvolto, quasi spettatore. Eppure, in quel momento, qualcosa si incrina.

Il palcoscenico televisivo

Pochi giorni dopo, il 16 giugno, il presidente approda nello studio di Quarta Repubblica, accolto da Nicola Porro. Lo scenario è quello nazionale, il messaggio calibrato: «Non ho mai favorito il mio ex socio. Nessun incarico, nessun favore». Ma il vero obiettivo è un altro: scavalcare la narrazione giudiziaria e parlare direttamente al paese reale. Occhiuto non nasconde l’intenzione di ricandidarsi, anzi la rivendica. Lancia la sfida: «Chiederò ai calabresi di giudicarmi». La mossa è spregiudicata, ma efficace. Il caso Calabria diventa caso politico.

La trincea della Cittadella

Il 18 giugno, nel cuore della burocrazia regionale, va in scena la conferenza stampa. Occhiuto sale al dodicesimo piano della Cittadella di Catanzaro e parla con tono grave ma risoluto. "Mi sento stuprato: non credo in un complotto, ma non mi faccio azzoppare" - assicura davanti ai giornalisti.

Il giorno del confronto istituzionale

25 giugno. In Consiglio regionale va in scena il passaggio più delicato: l’intervento ufficiale richiesto dall’opposizione. Niente slogan. Solo cronaca: “In 56 anni non avevo mai ricevuto un avviso giudiziario”. Occhiuto racconta gli atti ricevuti, annuncia che i suoi legali chiederanno di essere ascoltati prima della pausa estiva. Il tono è istituzionale, quasi dimesso. Ma tra le righe si legge il messaggio vero: non sono disposto a farmi logorare in silenzio. Chi cerca un presidente colpito, si trova davanti un politico già in campagna elettorale.

Il colpo di teatro finale

31 luglio. La scena si sposta di nuovo davanti a un cantiere: simbolo del “fare”, della Calabria che costruisce. Con un nuovo video, Occhiuto annuncia le sue dimissioni. Nessuna conferenza stampa, nessuna Aula istituzionale. Solo lui, un microfono, e un messaggio: «Mi dimetto, ma mi ricandido. Saranno i calabresi a decidere il futuro della Calabria». È qui che la strategia si chiude: la crisi personale diventa referendum popolare. Le dimissioni, che in altri tempi avrebbero segnato la fine di una carriera politica, oggi diventano la scintilla per un nuovo inizio. In un sistema in cui la giustizia attende di fare il suo corso, è la politica che si riappropria del centro del palcoscenico.