Dalla puntata di Dentro la notizia sulla crisi del voto che diventa crisi della democrazia, è emerso chiaramente come le condizioni delle nostre istituzioni siano davvero allarmanti. Nel confronto guidato da Pier Paolo Cambareri, il professore Antonio Viscomi e il direttore di LaC News24 Franco Laratta, entrambi con un’esperienza parlamentare, hanno messo in luce quanto la situazione sia davvero grave (rivedi qui la puntata). In un confronto forte e chiaro, senza omettere nulla, è apparso evidente come il Parlamento sia in una fase dormiente, considerato che la gran parte delle leggi viene approvata su iniziativa del governo, se non proprio con decreti legge. Da oggi sulle pagine di LaC ci occuperemo di raccontare una deriva che preoccupa: le sue ragioni, le possibili strade per uscirne. 

La crisi dunque è sotto gli occhi di tutti, anche se in pochi sembrano volerla affrontare con lucidità. Parliamo della crisi della politica, ma ancor più della crisi dei partiti, e dunque della crisi della democrazia stessa. Perché i partiti, piaccia o no, sono l’ossatura di una democrazia parlamentare. Quando si svuotano di senso, quando diventano comitati elettorali personali o macchine per la gestione del potere, il sistema comincia a scricchiolare.

Le ultime elezioni europee in Italia hanno registrato un dato molto preoccupante: meno della metà degli aventi diritto si è recata alle urne. È il livello più basso mai raggiunto. Un’astensione che non è più solo disaffezione, ma un vero e proprio segnale di sfiducia sistemica. Gli elettori si sentono fuori da ogni processo decisionale, spesso convinti, non del tutto a torto, che il loro voto non cambi nulla.

Il cuore della democrazia parlamentare è il Parlamento, eppure è sempre più marginalizzato. Le leggi non si discutono più nelle aule legislative ma vengono imposte dal governo con decreti legge, spesso blindati con il voto di fiducia. È una prassi che si è consolidata negli anni, sotto governi di ogni colore. Ma oggi è diventata la regola, non l’eccezione.

Nei primi due anni di questa legislatura, da ottobre 2022 a fine 2024, 129 leggi sulle 173 approvate erano proposte dal governo; e di queste, 69 erano decreti-legge poi convertiti in legge. Il Parlamento, da luogo del confronto, è diventato il terminale di ratifica dell’esecutivo.

La distanza tra istituzioni e cittadini cresce. Le famiglie alle prese con l’inflazione, il caro bollette, gli stipendi più bassi d’Europa, la precarietà del lavoro giovanile, non trovano più risposte nella politica. I giovani, in particolare, non si sentono rappresentati: il 60% degli under 30 non ha votato alle ultime elezioni politiche ed europee. Chi dovrebbe dare voce a questa generazione sembra non ascoltare, e questo silenzio produce rancore, sfiducia, disillusione.

Da Dentro la Notizia è arrivato l’allarme: una democrazia dove più della metà degli elettori non vota è una democrazia che rischia di smettere di essere tale. Il voto è solo un tassello, ma è il tassello fondante: se viene meno, il sistema perde legittimità. E quando si rompe il patto tra eletti ed elettori, tra rappresentanti e rappresentati, si apre la porta all’autoritarismo.

Negli Stati Uniti, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, dopo un mandato segnato da tensioni istituzionali, tentativi di delegittimare il voto, e l’assalto a Capitol Hill, rappresenta un crollo simbolico del modello democratico occidentale. L’alternanza non basta più a garantire la salute della democrazia. Conta il rispetto delle regole, l’indipendenza della magistratura, la libertà dell’informazione. Tutti fattori oggi in discussione.

Anche in Europa i segnali sono allarmanti.

In Ungheria, Polonia, Slovacchia, e ora perfino in Francia e Germania, cresce il consenso verso partiti che contestano i principi democratici in nome dell’“efficienza” e della “sicurezza”. Le elezioni si svolgono, ma il pluralismo si riduce, la libertà d’espressione si restringe, la società si polarizza. Sono “democrazie illiberali”, come le chiamava Viktor Orbán. Una contraddizione in termini che rischia di normalizzarsi.

Le dittature di oggi non si presentano più con la divisa o il manganello, ma con le urne. Elezioni regolari, certo, ma truccate nella sostanza: media controllati, opposizioni intimidite, magistrature piegate al potere politico. È il caso della Russia di Putin, della Turchia di Erdoğan, della Cina dove le elezioni locali esistono ma non significano nulla.

Occorre restituire senso alla rappresentanza. Riformare la politica, certo, ma anche educare alla cittadinanza. Dare voce alle nuove generazioni, tornare a discutere nel merito, recuperare la fatica del compromesso. Utopico? Forse. Ma l’alternativa è assistere, giorno dopo giorno, all’erosione silenziosa della democrazia.

La libertà non muore mai in un colpo solo. Muore lentamente, tra l’indifferenza e l’apatia. E quando ci accorgiamo che non c’è più, è troppo tardi.