«Il referendum è lo strumento meno adatto per riformare discipline giuslavoristiche». Ne è convinto Antonio Viscomi, ordinario di diritto del lavoro all’università Magna Graecia di Catanzaro e direttore del centro di ricerca Digit Lab Law che studia i rapporti tra imprese, lavori e transizione digitale. Il docente universitario commenta il risultato dell’ultimo referendum che ha chiamato al voto i cittadini per esprimersi su quattro quesiti riguardanti i temi del lavoro e un quinto sulla cittadinanza. Solo il 30% di votanti si è infine recato alle urne, non consentendo il raggiungimento dell’obiettivo dell’abrogazione delle norme sottoposte al giudizio degli elettori. Viscomi è stato ospite della puntata odierna di Dentro la Notizia, format di approfondimento condotto da Pier Paolo Cambareri in onda ogni giorno su LaC Tv alle 13 (rivedi la puntata).

Secondo lei cosa ha influito negativamente su questo risultato?

«Per la verità, era già successo nel 2003. Anche allora il quesito riguardava la reintegrazione in caso di licenziamento non valido. E anche allora non fu raggiunto il quorum. Il punto, allora come oggi, è che il referendum è lo strumento meno adatto per riformare discipline giuslavoristiche che sono il risultato di un bilanciamento complicato tra valori e interessi. È lo strumento meno adatto dal punto di vista tecnico, perché non è facile scrivere norme nuove abrogando frammenti di vecchie norme: non ci è riuscita neppure la Corte costituzionale che pure, dal 2018 in poi, ha demolito la disciplina del licenziamento oggetto di referendum, rendendolo di fatto quasi inutile. È lo strumento meno adatto dal punto di vista politico, perché determina una contrapposizione pro/contro mentre le riforme chiedono invece un approccio aperto a più estese alleanze che trovano poi spazio nelle aule parlamentari. Oggi, invece, si perseguono logiche identitarie che si accompagnano alla rottura dell’unità sindacale e da qui si sono riversate sul quadro politico; basti pensare alle posizioni sul referendum, alla mancata sottoscrizione dei contratti pubblici nel comparto degli enti locali e della sanità da parte di Cgil e Uil, alla mancata sottoscrizione da parte della Fiom del contratto economico del gruppo Stellantis, alla legge sulla partecipazione di iniziativa della Cisl approvata senza il voto favorevole di una parte delle opposizioni. Insomma, invece di costruire unità si è preferito rafforzare l’identità. Certo, costruire è faticoso, richiede pazienza e competenza; rafforzare l’identità in una logica amico/nemico è ovviamente più facile, non richiede né pazienza né competenza, ma alla fine, nel mondo del lavoro e non solo, non paga».

In Calabria si sono registrati alti tassi di astensionismo benché sia anche tra le regioni del sud Italia con le più alte percentuali di disoccupazione, emigrazione, lavoro nero e precario. Perché i quesiti referendari non sono riusciti a mobilitare la popolazione che in generale soffre di lavoro discontinuo o irregolare?

«Mi pare che la Calabria abbia da tempo questo primato, in tutte le competizioni elettorali. E le ragioni sono così tante che non vorrei rispondere con l’usuale elencazione di tutti i mali del mondo. Mi collego invece a quanto ho detto prima e pongo una domanda: è possibile parlare di lavoro senza parlare di imprese? Ovviamente no, perché il lavoro non lo creano i decreti del governo e i bandi della regione ma le imprese capaci di stare in modo competitivo sul mercato. A mio avviso, la questione centrale in questo momento è proprio questa: per vincere la sfida competitiva e riuscire a stare sul mercato la risorsa prima di cui ogni azienda dispone è data dalle persone che lavorano. E questo vale ancor di più a motivo dell’introduzione di sistemi tecnologici innovativi correlati all’intelligenza artificiale che per funzionare hanno bisogno di conoscenze e competenze multidisciplinari. Proviamo a mettere sul tavolo questi temi che riguardano il futuro reale delle persone – di tutte, di chi ha un lavoro e di chi un lavoro spera di trovare – e vedremo innalzarsi la soglia dell’attenzione e della partecipazione».

Sul risultato, in particolare in Calabria, può aver inciso anche l’eccessivo tecnicismo dei quesiti?

«I quesiti erano veramente complessi sul piano tecnico e sono stati banalizzati in modo incredibile sul piano della retorica referendaria, talvolta con affermazioni al limite dell’inverosimile, anche perché la legge da abrogare in parte era già stata oggetto di pesanti interventi della Corte costituzionale. Il fatto è che il referendum, come strumento di democrazia diretta, funziona molto bene quando puoi risolvere tutto con una logica binaria si/no, come è successo ad esempio per aborto e divorzio o per il nucleare o per la responsabilità dei magistrati nel 1987. Funziona meno bene o non funziona per nulla quando si chiede ai cittadini di sostituirsi al legislatore. Il problema non è tanto la disaffezione dei cittadini, quanto l’incapacità del Parlamento di svolgere il proprio lavoro, che è un lavoro di mediazione e cucitura come usuale in ogni sistema di democrazia rappresentativa. In questo contesto, è facile comprendere, in qualche misura, le ragioni che sollecitano un uso del referendum come strumento per richiamare l’attenzione dei cittadini su temi di rilievo, anche a prescindere dall’esito e dal quorum».

Sappiamo infine che il referendum è stato strumentalizzato dai partiti sia di maggioranza che di opposizione attribuendogli un significato politico. Anche questo può aver influito negativamente?

«Ovviamente si. Il referendum è diventato una sorta di sondaggio sul governo, che in caso di esito positivo avrebbe avuto il valore di un preavviso di sfratto. Ma è diventato anche una sorta di occasione straordinaria destinata a definire e consolidare l’identità politica democratica non più a vocazione maggioritaria. Abbiamo visto le conseguenze. Vocazione maggioritaria significa, però, farsi carico di creare e rafforzare alleanze tra ceti sociali differenti, tra istanze ed aspettative differenti. Fare sintesi, che è poi la capacità più alta della politica. Vorrei però evidenziare che al di là delle tematiche del lavoro il dato più rilevante di questa tornata referendaria è dato dal referendum sulla cittadinanza. Le persone che sono andate a votare e hanno votato no alla riforma sono in numero significativo: più del trenta per cento, che anche a togliere, più o meno, il dieci per cento di coloro che hanno votato no ai referendum sul lavoro, rimane sempre una percentuale elevata. In altri termini: tra il venti e il trenta per cento delle persone che hanno votato si ai referendum sul lavoro, ha votato no al referendum sulla cittadinanza. Bene, credo che questo sia un dato su cui riflettere con estrema attenzione, per comprendere veramente le dinamiche profonde che attraversano la società, l’inquietudine del presente e la paura del futuro che attanaglia la vita di molte persone».