C’è un’Italia che non parla più. Non perché non abbia nulla da dire, ma perché ha smesso di credere che la sua voce serva. Un’Italia che non urla, non marcia, non s’infuria: semplicemente si assenta. Diserta. E lo fa in silenzio, come si diserta un amore finito o un rito che non ci appartiene più.

L’8 e il 9 giugno 2025, le urne sono state riaperte. Cinque quesiti, cinque domande su cui decidere il futuro del lavoro, della cittadinanza, dei diritti. Ma il Paese ha risposto con il gesto più feroce che una democrazia possa ricevere: l’indifferenza.

Alle 23 di ieri sera, i dati parlavano chiaro: un’affluenza ferma al 22%. Troppo poco per superare il quorum, troppo poco per dare legittimità a qualsiasi scelta. Eppure i promotori, i partiti, i sindacati, i leader, tutti presenti, tutti fotografati con la scheda in mano e lo slogan sulle labbra, avevano provato a mobilitare coscienze. Invano. L’Italia reale – quella che aspetta un contratto, un permesso di soggiorno, una visita medica, un motivo per credere – era altrove. O forse semplicemente non c’era.

Questa non è solo la cronaca di un referendum fallito. È l’epitaffio della democrazia partecipativa nel suo senso più autentico. Un tempo, la scheda elettorale era il luogo in cui il cittadino si faceva Stato. Oggi è diventata un gesto inutile, un residuo burocratico in un mondo che ha svuotato la politica di ogni parola vera.

Dal 1946 ad oggi, l’Italia ha conosciuto 78 referendum. Ne ha onorati 39 con la propria voce, ne ha lasciati morire 39 con il silenzio. E in quel silenzio – che non è mai solo un’assenza, ma è anche accusa, disillusione, rifiuto – si consuma il dramma di una nazione che ha imparato a diffidare della democrazia come promessa tradita.

Nel 1974, milioni di italiani affollarono i seggi per difendere il diritto al divorzio. Nel 1981 respinsero l’abolizione della legge sull’aborto. E ancora, nel 2011, si presentarono in massa per dire no alla privatizzazione dell’acqua. Ma oggi? Oggi basta guardare i numeri: in Calabria, solo il 10% degli aventi diritto si è recato alle urne. Nell’intera Italia, l’affluenza alle 12 era sotto l’8%. Nemmeno il tempo di un caffè prima di andare al mare.

Cos’ha svuotato la partecipazione politica fino a renderla un gesto inutile, persino sospetto? La risposta è complessa, ma ha nomi precisi: televisione commerciale, che ha spento il pensiero critico trasformando tutto in intrattenimento. I nuovi media, che ci parlano con linguaggi algoritmici e ci illudono di partecipare mentre ci isolano. Il Palazzo, che ha imparato a governare senza popolo. E soprattutto, una cultura dell’adattamento, che ci ha convinti che nulla cambierà davvero, e che accontentarsi è già una forma di sopravvivenza.

Anche per questo i cinque quesiti referendari – pur nati da battaglie giuste – non hanno incendiato i cuori. Non hanno scosso le fondamenta. Non hanno osato davvero. In alcuni casi si sono limitati a tornare indietro, in altri a proporre aggiustamenti o migliorie. Ma probabilmente il nostro Paese oggi non ha bisogno di correzioni: ha bisogno di trasformazioni profonde.

I 5 quesiti sono rimasti a metà strada tra il nulla e il cambiamento: un compromesso troppo fragile, troppo timido, troppo razionale per accendere la passione, troppo tecnico per diventare destino. È stata scelta la via più facile: non disturbare troppo, non spaventare nessuno, non rompere l’ordine costituito. Ma una democrazia che si limita a chiedere il permesso non è più una democrazia: è una burocrazia che parla a se stessa.

E allora il popolo, anche per questo ha voltato le spalle. Perché oggi nessuno si alza dal divano per votare un cambiamento che non è rivoluzione.

E così l’Italia, quella che una volta cantava “il popolo sovrano”, oggi si ritira. Preferisce delegare, oppure rassegnarsi. Il voto non è più un atto di fiducia, ma una messa in scena che puzza di inganno. Persino i politici, come la premier Meloni, si presentano al seggio per non votare: per "non far raggiungere il quorum". È questa la pedagogia che impartiamo? È questo l’esempio? Partecipare solo se conviene, solo se si vince?

Non c’è da stupirsi, allora, se gli elettori chiedono di essere dispensati dalle schede. Se i presidenti di seggio pongono domande che orientano. Se i disabili devono aspettare tre ore per votare. Se i traghetti non passano e due cittadini su quindici decidono che non vale la pena prendere il mare per dire la propria. Tutto parla di una democrazia stanca, logorata, scolorita. Una democrazia che non commuove più.

Eppure, tra le macerie, restano simboli resistenti. Come la signora Rosa, novantacinque anni, che va a votare in sedia a rotelle: «Non ho mai saltato un voto. E finché posso, continuerò». Lei sì, è una patriota. Lei sì, incarna ancora l’idea che votare sia una responsabilità, non un favore. Che decidere insieme, anche sbagliando, sia meglio che lasciar decidere altri.

Il problema, oggi, non è solo l’astensione. È l’indifferenza che l’ha resa legittima. È la politica che non parla più la lingua dell’umano, ma quella delle strategie, dei like, dei sondaggi. È l’opposizione che si frammenta, la maggioranza che si chiude, l’informazione che si accoda. È l’assenza di visioni, di poesia, di coraggio.

Un referendum che cade nel vuoto non è solo un fallimento tecnico. È un termometro: misura la febbre della democrazia. E oggi la febbre è alta, ma non la sentiamo più. Forse abbiamo imparato a convivere col male. Forse, peggio ancora, non ci importa di guarire.

Ma io continuo a credere che il silenzio non sia l’ultima parola. Che la disillusione non sia un destino. Che le urne vuote non siano un epilogo, ma un avvertimento. Perché il giorno in cui smetteremo del tutto di votare, sarà anche il giorno in cui qualcun altro deciderà che non serve più neppure chiederci il permesso.

E allora sarà troppo tardi per ritrovare la voce.