Le parole di un neolaureato in Medicina rivolte a chi governerà la Calabria: «Mi auguro di riuscire a mantenere vivo quel ragazzo che ha scelto con la propria testa e non si è limitato a restare a guardare, Lei faccia lo stesso»
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Caro Presidente,
le scrivo da cittadino che vive ogni giorno bellezze e contraddizioni della terra calabrese.
Credo con speranza che chi governa debba ascoltare, osservare e soprattutto agire con buon senso, coerenza e onestà, valori purtroppo sbiaditi nel periodo che stiamo attraversando.
Sono un giovane neolaureato all’Università Magna Graecia di Catanzaro, cresciuto tra Cosenza e Crotone e, come tanti altri, ho sentito sin da piccolo il dovere morale di impegnarmi per questa terra tanto amata quanto, troppo spesso, ferita e dimenticata.
Con il fine di mettermi dalla parte degli ultimi, a 15 anni mi sono avvicinato al mondo della politica entrando in punta di piedi nella sede di Giovani Democratici della città di Crotone. Ricordo quel momento come se fosse ieri: ero animato dalla speranza – forse ingenua ma autentica – di abbracciare il mondo, pur avendo braccia ancora troppo piccole per farlo. Dentro di me c’era una rabbia vissuta in modo passionale arricchita dalla sete di giustizia che mi spingeva quotidianamente per un’idea di una Calabria più giusta e solidale raggiungibile solamente con un cambiamento radicale. Desideravo trasmettere speranza e sentirmi al servizio della mia comunità. Forse è da quella stessa inquietudine che nasce la mia scelta di diventare medico: ho compreso che curare le persone è una forma concreta – anche se silenziosa – di impegno civile. Servire i pazienti, nel mio piccolo, è oggi il mio modo per continuare a servire la collettività.
Col tempo, mi auguro di riuscire a mantenere vivo quel ragazzo che ha scelto con la propria testa e non si è limitato a restare a guardare. Ciononostante, crescendo e vedendo il mondo da nuove prospettive e sentendosi ripetere spesso “ma chi te lo fa fare?”, si tende a dubitare — e nei momenti di sconforto, la voce si affievolisce.
Penso sia capitato anche a Lei, ma mi auguro che, nonostante tutto, abbia ancora la consapevolezza e la forza di non tradire quegli ideali che l’hanno spinta, un giorno, a scegliere di mettersi al servizio gli altri. Non tradisca anche Lei, quel bambino che ha coltivato ambizioni e passioni che si sono potute concretizzare nella forma più alta di servizio nei confronti della Calabria e dei calabresi tutti.
Per il prossimo mandato, le sfide saranno molteplici, ma questa nostra Regione non può e non deve fermarsi davanti a egoismi personalistici.
Alle richieste disperate di un popolo in ginocchio, non si può restare a guardare. I cittadini calabresi non possono diventare martiri di un servizio sanitario nazionale che non garantisce il diritto alla salute sancito dalla Costituzione, e disattende dalle periferie fino ai grandi centri. Non possiamo — e non vogliamo — che si ripetano storie come quelle di Serafino Congi, Martina Piserà o della piccola Carlotta La Croce, che hanno scosso l’opinione pubblica, ma che non possono limitarsi a restare solo questo. Sono ben conscio che tutto ciò non le sia nuovo, purtroppo. Ci auguriamo che non resti un semplice clamore mediatico, ma che si traduca in azione politica concreta.
Non si faccia come a Crotone, in cui — dopo anni passati a denunciare ENI per aver inquinato la città di Pitagora — oggi si rischia che la bonifica venga effettuata negli stessi luoghi già martoriati.
Ciò che La attende rappresenta un momento storico cruciale per questa Regione. In virtù di ciò, mi permetto di richiamare gli illustri intellettuali che ci rendono orgogliosi del nostro essere calabrese: da Corrado Alvaro a Giocchino da Fiore, da Tommaso Campanella, fino a un martire della politica come Francesco Fortugno. Si costruisca un modello ideale, finanche utopico, in cui riaffiori il merito, la sapienza e in una parola la felicità. Non un sogno irrealizzabile, ma un richiamo a ciò che manca oggi: una visione collettiva, dove il singolo non prevalga sulla comunità, dove governare significhi servire. E se allora Campanella scriveva dalla prigione, oggi — dalla nostra libertà — abbiamo il dovere di riscrivere quel sogno, in chiave reale.