C’è stato un tempo in cui Matteo Renzi sembrava l’uomo destinato a rifondare la politica italiana. Il suo 40% alle Europee del 2014, un risultato da Prima Repubblica, lo fece apparire come il nuovo De Gasperi fiorentino, un rottamatore che invece dei calzoni corti indossava l’abito sartoriale della leadership. Giovane, rapido, comunicativo, ipercinetico, telegenico, a suo modo visionario: in un’Italia ingessata e impolverata, Renzi portava l’odore della novità.

Peccato fosse anche convinto di essere l’unico genio del villaggio.

L’autostima, questa sconosciuta (agli altri)

Renzi ha sempre avuto una qualità rara nella politica italiana: la convinzione incrollabile di essere nel giusto. Sempre. Il che, a ben vedere, può anche essere una virtù, se temperata dalla capacità di ascoltare, mediare, fare squadra. Ma nel caso di Renzi, quella virtù ha assunto presto i contorni del narcisismo politico: non c’era palco che non cercasse, microfono che non sfuggisse al suo fascino, intervista che non sembrasse un monologo da talk show.

Con una parlantina che sembrava uscita da un casting della Leopolda e una capacità invidiabile di inventare slogan, Matteo Renzi non parlava, performava. Il problema era che, spesso, non c’era un secondo attore sulla scena. Perché in squadra con lui, in realtà, non c’era quasi mai nessuno.

Arrivato a Palazzo Chigi nel 2014 scalzando elegantemente Enrico Letta (“Enrico stai sereno” è ormai patrimonio lessicale della politica italiana), Renzi governò con una rapidità quasi compulsiva. Mise mano al Jobs Act, alla Buona Scuola, tentò di riformare tutto, persino il Senato. E lo fece con l’energia del riformista che non ha tempo da perdere. Ma anche con la sfrontatezza di chi ritiene che il Paese sia, in fondo, un palcoscenico su cui mettere in scena il proprio show personale.

Fu così che arrivò il referendum costituzionale del 2016, il più grande autogol politico della Seconda Repubblica. Avvertito da tutti, compreso Giorgio Napolitano, il saggio presidente della Repubblica, di non personalizzare una consultazione su temi così delicati, Renzi fece esattamente il contrario. Trasformò la riforma in un plebiscito su di sé. E perse.

Quella notte del 4 dicembre 2016, mentre saliva le scale del Quirinale per rassegnare le dimissioni, sembrava salire su un monumento al proprio ego ferito. Il ragazzo che voleva cambiare tutto fu cambiato dagli eventi, e non per il meglio.

Dopo la sconfitta, anziché ritirarsi in convento per un po’ di salutare silenzio politico, Renzi tornò in campo più solo che mai. Lasciò il PD, per poi fondare Italia Viva, un partito personale con cui sperava di diventare l’ago della bilancia della politica italiana. In parte ci riuscì, con il celebre “Conte due”, che fece nascere e poi cadere. Ma ormai il pubblico si era stancato della sua recita in solitaria.

Italia Viva è rimasta viva più nel suo nome che nei sondaggi. La sua creatura era troppo stretta per contenere l’ambizione del fondatore e troppo larga per avere un’identità vera. Il partito dei moderati, dei riformisti, dei centristi con l’accento toscano: una definizione che non è mai diventata passione popolare.

Il paradosso Renzi

Oggi, Matteo Renzi resta una delle figure più controverse della recente storia italiana. Un uomo di grande intelligenza politica e notevole cultura istituzionale, capace di manovre complesse, alleanze trasversali e visioni originali. Ma anche un leader incapace di costruire un vero gruppo, di fidarsi, di delegare. Un one man show in un Paese che avrebbe avuto bisogno di una squadra.
Probabilmente è stato l’ultimo vero leader italiano, nel senso classico del termine: capace di entusiasmare, dividere, cambiare l’agenda politica. Ma, come un novello Icaro, si è bruciato le ali volando troppo vicino al sole della propria vanità.
Alla fine, Renzi non è stato sconfitto dalla destra, dalla sinistra, o dagli avversari interni. È stato sconfitto da Renzi stesso. Vittima di sé stesso e del suo sproporzionato ego. Come direbbe lui: «Colpa mia. Ma anche un po’ vostra, dai».
E adesso? Gira tra podcast, editoriali e conferenze in giro per il mondo, sempre a suo agio quando si tratta di parlare. E se lo ascolti bene, in fondo non ha mai smesso di pensare di essere il migliore.
Forse lo è stato. Ma in un tempo troppo breve per lasciare il segno, e troppo lungo per non lasciare rimpianti.