È il presidente di Forza Italia, vicepremier, ministro degli Esteri, ex portavoce di Forza Europa, ma soprattutto è il campione assoluto della parola che non lascia traccia e non produce pensiero
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ANSA
Alla Camera oggi hanno dato la parola a nessuno: era Tajani.
Un tempo Fortebraccio scrisse di un’auto che si fermò, si aprì lo sportello e non scese nessuno: era Cariglia. Poi qualcuno lo disse anche di Casini. Oggi l’arte della presenza vuota ha trovato un nuovo maestro. Si chiama Antonio Tajani. È il presidente di Forza Italia, vicepremier, ministro degli Esteri, ex portavoce di Forza Europa, ma soprattutto è il campione assoluto della parola che non buca, non lascia traccia, non produce pensiero.
Tajani parla. Parla a lungo. Parla lentamente. Parla sottovoce. Parla come se stesse leggendo le istruzioni del telecomando. Ogni frase è una variazione sul nulla. Ogni discorso è un’ode all’ovvietà. Sembra che stia sempre per dire qualcosa, ma poi non lo fa. Dice che «bisogna lavorare per la pace», che «i bambini non devono morire», che «la diplomazia è importante», che «il governo fa tutto il possibile». Una litania monocorde, senza slanci, senza cuore, senza nemmeno un inciampo retorico. Un anestetico istituzionale.
Ieri ha parlato della strage di Gaza. Dei bambini massacrati. Della fame, della morte, dell’orrore. Ma ne ha parlato come si parlerebbe del tempo, come si dice che domani forse piove. Nessuna indignazione, nessuna emozione, nessuna parola che potesse smuovere un sentimento, creare un dubbio, provocare una reazione. Nulla. Solo Tajani.
In un’epoca in cui la politica è sempre più teatro, Tajani è il sipario abbassato. In un tempo in cui si urla per ottenere un like, lui sussurra per non disturbare. Non infastidisce, non infiamma, non divide. Non serve. È il perfetto rappresentante di una società che ha disimparato ad appassionarsi, che davanti alla tragedia cambia canale, che di fronte alla banalità istituzionale spegne la radio.
Anche nella prima Repubblica c’erano i professionisti della parola vuota. I grandi oratori della Democrazia Cristiana sapevano dire e non dire con eleganza, con astuzia, con una certa arte della nebbia. Ma c’era uno stile, un sottinteso, una grammatica. Oggi resta solo il suono bianco dell’ovvio, la retorica da centralino ministeriale, il discorso che inizia e finisce senza lasciare traccia.
E in questo, Antonio Tajani è il numero uno. Il nulla, recitato con estrema competenza.