C’è un silenzio che pesa più delle parole in questa cortissima campagna elettorale calabrese. Le piazze non si riempiono. I giovani non ci sono. I discorsi dei candidati si perdono nell’aria come fogli di volantini strappati dal vento. La Calabria si avvicina al voto con la stessa rassegnazione con cui si attende l’ennesima promessa non mantenuta. E infatti, più che partecipazione, ciò che si respira è la certezza di un astensionismo di massa, destinato a diventare ancora una volta il vero vincitore delle urne.

Non è un’ipotesi, ma un trend consolidato: alle regionali del 2021 meno di un calabrese su due si è recato ai seggi, con un’affluenza ferma al 44,36 %. Stavolta, i segnali sono ancora più desolanti. La politica, in questa terra, continua ad apparire come un ingranaggio che gira a vuoto.

Una macchina che serve a distribuire posti, a riciclare facce, a garantire rendite. Ma non a costruire futuro. Non c’è visione. Non c’è un progetto capace di andare oltre lo slogan o il cantiere inaugurato in pompa magna. Si promettono infrastrutture quando mancano i servizi essenziali. Si parla di modernizzazione quando gli ospedali cadono a pezzi e le scuole si svuotano. È un teatrino che non scalda più nessuno, se non gli addetti ai lavori.

Eppure sarebbe troppo comodo fermarsi qui, a dire che è tutta colpa della politica. Perché la politica non nasce nel vuoto: è lo specchio di chi la esprime. La Calabria ha la classe dirigente che si merita, perché da decenni accetta di essere governata dalla rassegnazione. È una società che si lamenta, che attribuisce sempre la responsabilità a qualcun altro – lo Stato, Roma, l’Europa, il Nord – senza mai riconoscere la propria parte.

Non funziona la sanità? È colpa della politica. Non c’è lavoro? Colpa della politica. Ma non è forse la stessa gente a premiare con il voto chi promette favori personali invece che sviluppo collettivo? Non è la stessa società civile che troppo spesso si rifugia nel privato del suo orticello, senza pretendere regole uguali per tutti? Dietro la retorica del “restare” e del “tornare”, dietro gli slogan che rimbalzano sulle bacheche social, cosa c’è davvero? Niente, se non rimpianto e nostalgia.

Perché la Calabria, al di là della bellezza da cartolina, resta un deserto di prospettive. Lo dicono i numeri: la popolazione residente al 31 dicembre 2023 era di 1.838.568 abitanti, con un calo di oltre 8.000 persone in un solo anno. I giovani calano ancora più velocemente: negli ultimi quattro anni la fascia tra i 18 e i 35 anni è scesa da circa 374.000 a 355.000 unità.

Molti di loro sono fuorisede: oltre 100.000 calabresi che studiano o lavorano altrove e che difficilmente tornano per votare, nonostante la retorica degli appelli a “riempire le urne”. Così, la Calabria non solo perde i suoi figli migliori, ma li respinge due volte.

La prima quando li costringe a partire. La seconda quando li accoglie al ritorno con un calcio, ricordando loro che qui le cose non cambiano. Qualcuno dirà: “Non è vero, io non me ne sono mai andato”. Oppure: “Io sono tornato e ho costruito i miei sogni in questa terra meravigliosa.”

Bene per loro. Ma quell’eccezione non serve, perché non cambia la regola.

Una rondine non fa primavera. E una storia individuale non rovescia le macerie di un sistema. La qualità della vita non si misura dalla propria bolla personale. Si misura da ciò che trovi appena alzi lo sguardo e lo poggi sulla collettività: servizi, opportunità, comunità. E se intorno a te c’è solo desolazione, non puoi essere soddisfatto, perché in realtà non si è risolto nulla. La verità, amara e ineludibile, è che la Calabria è un inferno per troppi e un paradiso per pochi.

Non bastano le eccellenze. Non bastano le oasi felici. Non bastano i proclami di chi racconta il “bello che resiste”. La Calabria è ultima in Italia e tra le peggiori in Europa non per destino crudele, ma perché non c'è organizzazione. C’è approssimazione. E perché i suoi abitanti non hanno mai alzato l’asticella, non hanno preteso di più, non hanno costruito regole collettive solide. Hanno accettato la disorganizzazione come destino, il clientelismo come scorciatoia, la mediocrità come normalità.

Gli indicatori lo confermano: l’indice di vecchiaia è tra i più alti del Paese, con circa 175 anziani ogni 100 giovani. L’indice di dipendenza strutturale segna oltre 55 persone a carico ogni 100 lavoratori attivi. Una società vecchia, impoverita, che lentamente si spegne. La politica è lo specchio di questa resa. E quando le urne resteranno semivuote, non sarà solo la sconfitta dei partiti: sarà la sconfitta di un’intera società che ha smesso di credere nel proprio futuro. Nell’attesa delle elezioni però, quando vi fermerete davanti a quei manifesti elettorali affissi sui muri delle città e dei paesi, non scandalizzatevi troppo. Perché in realtà non state guardando i candidati: state guardando voi stessi, riflessi nello specchio.

E quando rivolgete preghiere, critiche, indignazione e rabbia, ricordate che lo fate sempre a quello stesso specchio, di cui siete parte e di cui siete solo un riflesso sbiadito. Perché la dura verità è questa: che, pur essendo la stessa cosa, vi trovate dalla parte sbagliata dello specchio, quella più ingenua, meno furba e meno fortunata.