Natalia Grace ha più o meno quattro anni quando lascia l’Ucraina e l’orfanotrofio che l’ha vista mettere i primi denti, e arriva in America. Sua madre non può occuparsi di lei: lo mette in chiaro fin da subito con il direttore del centro per l’infanzia. Ha già un figlio di quattro anni, non è sposata e quella bambina ha bisogno di cure e assistenza. Lei non ha denaro né tempo per badare a una figlia affetta da displasia spondiloepifisaria congenita, una rara forma di nanismo che condannerà la piccola a una vita di dolore e sacrifici.

Barnett, vivono in Indiana, hanno già tre figli, ma desiderano adottarne un altro, una bambina per la precisione. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto, che hanno messo a dura prova il loro matrimonio, hanno quasi gettato la spugna, ma in un giorno di primavera un ente che si occupa di adozioni li contatta: c’è una bambina malata che arriva da lontano – dicono –  dolcissima, cerca una famiglia perché quella adottiva – i Ciccone del New Hampshire – non vuole più tenerla con sé. «Rischia di finire in un istituto e nelle sue condizioni sarebbe un disastro» spiega l’impiegata. Kristine e Michael Barnett rimangono colpiti dalla storia di Natalia e decidono di accoglierla.

Kristine, in quel momento, ha appena aperto un centro per l’infanzia e sta per pubblicare un libro, The Spark (Il mio bambino speciale), in cui racconta la storia del figlio Jacob, un bambino autistico che, con i giusti stimoli, ha dimostrato di essere un enfant prodige.

La grande popolarità come autrice e seminarista, pedagoga e madre amorevole, stride con ciò di cui venne accusata pochi anni dopo: abusi e violenze psicologiche su Natalia, che li denuncia per abbandono di minore.

Il rapporto tra i Barnett e Natalia si rivelò turbolento sin dai primi giorni di convivenza. Nella casa cominciò ad aleggiare un sospetto inquietante: Natalia non era affatto una bambina, ma un’adulta con comportamenti disturbanti e aggressivi, così inquietanti da ricordare da vicino la trama del film horror The Orphan. La famiglia cominciò così a temere per la propria incolumità. 

Due anni dopo l’adozione, la coppia riuscì a ottenere la modifica del certificato di nascita di Natalia retrodatandolo alla fine degli anni 80, prese una casa in affitto e la abbandonò lì, trasferendosi in Canada.

La storia è tornata da qualche mese alla ribalta grazie alla miniserie su Disney+, A Good American Family, che vede Ellen Pompeo (Grey’s Anatomy) nei panni di Kristine, una straordinaria Imogen Faith Reid in quelli di Natalia, e Mark Duplass (The Morning Show) nella parte dello stralunato marito Michael (da vedere anche il documentario su Prime “Il curioso caso di Natalia Grace”).

La serie cambia prospettiva a ogni episodio, lasciando allo spettatore il compito di decidere quale versione dei fatti sia più credibile: quella dei coniugi Barnett – finiti sotto accusa con sei capi d’imputazione, da cui Michael è stato assolto e Kristine scagionata grazie all’archiviazione – oppure quella di Natalia, che un tribunale ha riconosciuto essere, all’epoca dell’adozione, una bambina di sette anni e non una donna di ventidue, come sostenevano i suoi genitori adottivi.

Le tribolazioni di Natalia sembrano essersi concluse solo di recente - un capitolo che la serie non racconta - quando, dopo aver lasciato la casa di Cynthia e Antwon Mans, la coppia che l’aveva accolta durante il processo ma su cui pesano sospetti di interessi economici, ha trovato finalmente rifugio presso i DePaul, una coppia affetta da nanismo che le ha offerto un ambiente sereno e accogliente. È il lieto fine, forse, di una storia tormentata, quella di una bambina che, in fondo, bambina non è mai stata.