Attore lunare, ironico e struggente, ha dato un volto tenero all’assurdo e reso immortali i suoi personaggi con uno sguardo azzurro e un sorriso disarmato
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Gene Wilder è tutto in quei venti secondi che corrono tra la confessione del baffuto pastore armeno: "Sono innamorato di una pecora", e il suo laconico: "Ah, vedo". Nel Vangelo secondo Woody Allen, nel versetto sulla sodomia in Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, buca lo schermo la faccia lunare di Gene Wilder, l'unico attore, forse, in grado di dare all'inverosimile una dimensione logica, capace di accogliere la risata di chiunque senza che questa venga spazzata via dal paradosso.
Tutte le declinazioni della sorpresa, dell'imbarazzo, dell'incredulità attraversano come un treno lo sguardo dell'attore, che oggi averebbe compiuto 92 anni (è scomparso nel 2016), sul confine tra grottesco e comicità, in equilibrio tra risata e sorriso. Per un attore: l'applauso o la caduta libera, la vita o la morte. Un battito sbagliato, un tempo comico fuori fase e la macchina non parte. Ma Wilder è perfetto, l'alchimia riesce, l'esperimento funziona, la risata nasce e nascerà forte e sana ogni volta. Si può fare. E si farà ancora e ancora.
Con Mel Brooks, da solo, o in coppia con Richard Pryor, Gene Wilder ha sempre esercitato con disincanto il suo mestiere d'attore: nei panni del buono che finisce per caso nei pasticci, in quelli del sedotto e abbandonato sul cornicione a due passi da un materasso ad acqua, o come lo scienziato pazzo dal cognome ostinato e resistente a qualsiasi sua distorsione.
Wilder ha sempre avuto dalla sua quell'aria da uomo molto perbene, timorato di Dio, affidabile e sornione, con il sorriso affilato, i modi garbati. Il compagno di fila che chiede per favore, il vicino a cui bussare per lo zucchero, l'impiegato ordinato e metodico, forse un po’ bizzarro – per via dei capelli caprini e rossicci, ravviati di lato –, il marito sollecito con gli occhi azzurri sgranati d’innocenza anche quando mente e cincischia per consumare una scappatella. Sempre quasi fuori posto, quasi preso in castagna, quasi eroe, quasi amante sotto le lenzuola di seta della signora in rosso Kelly Le Brock, che sussurra tra le note di Stevie Wonder: goditi il pasto, cowboy. E invece niente, resta fantasia anche quell'evasione peccaminosa.
Immaginazione, solo pura immaginazione – direbbe stretto nella giacca viola del signor Wonka, con gli occhi calmi e così azzurri – di quel tipo appiccicato di caramella e cioccolato, sorvegliata da inquieti Oompa Loompa e da un robivecchi insozzato di carbone, dipinto da una pagina di Dickens, che racconta al povero Charlie che lì dietro, nella grande fabbrica del cioccolato, c'è un meraviglioso sogno, certo, ma anche un grande incubo che nessuno ha mai visto. Chi entra non esce. Da un lato il biglietto dorato: Broadway, Hollywood, il cinema, il nome nuovo, il successo; dall'altro, invece, l'amaro del cioccolato: la malattia della moglie, l'addio alle scene, le debolezze, le ostinate memorie scritte e riscritte in solitudine, non certo perfetta.
Mister Wilder non c’era più da tempo per il grande pubblico, eppure ricordare che non c’è più è come guardare inermi qualcuno che sfila via il nastro del film più divertente della nostra vita. Potrebbe andare peggio. Certo, potrebbe piovere.