L’ultimo rifugio d’umanità per i malati di Aids è in Calabria: le loro storie

VIDEO | Abbiamo incontrato i pazienti sieropositivi ospitati nella struttura di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio. Spesso abbandonati dalle famiglie e con storie difficili alle spalle, qui trovano amorevoli cure sino alla fine dei loro giorni

di Erica Cunsolo
1 aprile 2019
17:24
Uno degli ospiti della Casa dei malati di Aids di Oppido
Uno degli ospiti della Casa dei malati di Aids di Oppido

Giovanni è sereno nel pensare alla morte. Quando andrà in cielo vuole riposare a Oppido, vicino ai suoi amici. Manila, Cesare, Maria, Mario, Italo, Pedra: tutti malati di Aids, rimasti soli al mondo - come lui - ma seppelliti degnamente in una cappella dell’ente Germanò che gestisce anche la casa d’accoglienza nella quale hanno ricevuto le cure fino alla fine dei loro giorni.

Giovanni è un trans di Napoli, il più anziano paziente della Casa malati di Aids a Castellace di Oppido. Adesso non ci sente più, porta anche lui i segni di una malattia che logora lentamente il corpo fino a togliere la vita. Una vita che dal 1998 ha deciso di cambiare, curandosi e assistendo anche gli altri fino all’ultimo respiro. Nella struttura sanitaria dell’ente morale Germanò ha trovato una vera famiglia, quella che gli starà a fianco per sempre.


 

Per Don Emanuele Leuzzi, arrivato alla guida dell’ente dopo il compianto Don Bruno Cocolo, dare degna sepoltura a chi non ha neppure un posto dove essere ricordato, fa parte della loro missione: «Come ci siamo presi cura di loro in vita, continuiamo a farlo anche dopo la morte, pregando per loro».

La struttura di Oppido è una realtà di riferimento per l’intero sud Italia, operativa dal 1996.
Quasi duecento i pazienti che sono stati accolti qui dalla sua fondazione, molti di loro in fase terminale. Oggi fortunatamente grazie ai farmaci antiretrovirali non si muore più di Aids. L’aspettativa di vita è cresciuta e i pazienti (attualmente 13 su 18 posti disponibili) rimangono per anni nella casa di cura. Molti di loro hanno una doppia diagnosi. Oltre all’Hiv, hanno quasi sempre patologie psichiatriche associate e vite davvero dure alle spalle.

 

Alcuni vengono dal mondo della tossicodipendenza, come Vittorio, che ha contratto la malattia bucandosi. «È da 11 anni che sto qua. Vuoi sapere altro? Primo spinello a 12 anni. Primo scippo a 12 anni. Il 2 ottobre del 1980 mi sono beccato la malattia al primo buco».

Altri si sono ammalati dopo rapporti sessuali a rischio come William:«Una mattina l’ho presa, volevo trasgredire, sono andato con un transessuale senza contraccettivi. L’ho presa da incosciente, mi sentivo immortale».

 

Tutti sentono l’abbandono delle proprie famiglie come una punizione troppo dura da scontare, come ci racconta “la regina" della casa, Maria, unica degente donna ancora autosufficiente: «Penso sempre alla mia famiglia, vorrei un avvicinamento. A casa non mi vogliono. Voglio vedere i miei tre figli. Li hanno dati in adozione. Non lo so dove stanno... non so dove si trovano».

Ma c’è chi come Massimo è ancora in tempo a salvarsi, e vuole trovare in casa la forza di farcela: l’Aids può essere una motivazione fortissima per non drogarsi più. La famiglia, spaventata dalla malattia, lo ha allontanato e l’ospedale gli ha consigliato la casa d’accoglienza di Oppido. Ci sta provando, nonostante «la voglia di tornare a farsi», lo abbia fatto scappare dalla struttura già tre volte, per poi tornarci volontariamente. Deve «ripulirsi», dice, e riconquistare così i suoi affetti che sono fuori: «Il pensiero di stare qui tutta la vita mi fa stare male».

 

Il direttore sanitario Alfonsina Rechichi ci spiega di come accogliere i pazienti significhi anche curarli nella loro complessità, tenendo conto del loro vissuto: «Alcuni di loro vengono aiutati a recuperare una vita all’esterno della struttura, altri vengono accompagnati nel percorso di cura quando le condizioni cliniche diventano piuttosto gravi».  

«Loro sono qua perché non hanno chi si possa prendere cura di loro. Quando arriva la fine spesso dai familiari ci sentiamo dire “vedetevela voi” ed è davvero un brutto momento per noi», ci racconta l’assistente sociale Donatella Grillo, che ai pazienti, invece, dopo anni trascorsi insieme, c’è davvero affezionata come fossero persone di famiglia. Sentimento che prova l’intera equipe che lavora nella Casa.

Nessuno qui ha paura di loro, di dargli un abbraccio, di condividere un pasto. Gli "ultimi" qui in Calabria trovano una famiglia che si prende cura di loro e continuerà a farlo.

Giornalista
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