Coronavirus, «carica virale 10 volte inferiore rispetto a marzo»: lo studio del San Raffaele

Minore gravità della malattia e meno ricoveri in terapia intensiva: è partita da qui l'indagine citata dal direttore della terapia intensiva Zangrillo e svolta su 200 pazienti ricoverati nell'ospedale milanese da marzo a maggio

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di Redazione
1 giugno 2020
18:40

«Il nuovo coronavirus clinicamente non esiste più». Le affermazioni di Alberto Zangrillo, direttore della terapia intensiva del San Raffaele di Milano, circa la perdita della virulenza del SarsCov2 hanno scatenato una marea di reazioni e polemiche. Tra gli studi citati da Zangrillo a sostegno della sua tesi, anche quello coordinato da Massimo Clementi, direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia del San Raffaele, e in via di pubblicazione sulla rivista Clinical chemistry and laboratory medicine.

Tale studio ha evidenziato come il virus SarsCov2 si replichi molto meno rapidamente ora rispetto a un paio di mesi fa e la carica virale a maggio sia 10 volte inferiore che a marzo: dato osservato in 200 pazienti ricoverati al San Raffaele da marzo a maggio.


L'indagine, spiega Massimo Clementi, «è partita dall'osservazione fatta dai medici di Terapia intensiva e dei reparti Covid sulla minore gravità della malattia e minor ricorso al ricovero in terapia intensiva». Dopo aver escluso che il virus avesse subito mutazioni genetiche significative, i ricercatori, con una tecnica di analisi molecolare, hanno studiato la velocità di replicazione del virus. Il confronto è stato fatto analizzando le quantità di virus presenti nei tamponi di 100 malati Covid, ricoverati nella prima metà di marzo, e 100 nella seconda metà di maggio.

 

«È così emersa una differenza macroscopica tra i pazienti di maggio e marzo - prosegue Clementi -. Tutti quelli di maggio avevano infatti una carica virale e una velocità di replicazione 10 volte inferiore a quella dei malati di marzo». Si tratta di un «aspetto già osservato in altri virus come quello dell'Hiv, dell'epatite B o C: tanto maggiore era la loro replicazione, tanto più rapida era la progressione della malattia», continua.

 

Se ciò possa spiegare la differenza clinica osservata in questi mesi, «non lo so dire, ma è un dato significativo e che si è osservato anche per altri virus - conlcude Clementi -. Ora lo studio continuerà su altri pazienti e verrà allargato anche a pazienti americani, con la collaborazione di Guido Silvestri della Emory university di Atlanta».

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