Sei presenze in Serie D, nessun gol, un cognome che ti precede come un macigno: così il ragazzo ha deciso di smettere. Ma nel suo addio c’è molto più di un ritiro precoce. C’è il fallimento di un sistema che non sa proteggere, e anzi divora, i figli dei suoi idoli
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Cristian Totti, foto Ipa
Alla fine ha mollato. E come dargli torto? Quando ti chiami Cristian Totti, non scendi mai in campo da solo. Ogni tocco che fai ha la voce di un padre alle spalle. Ogni scatto è un confronto. Ogni errore, una sentenza. Hai sedici anni, poi diciassette, poi diciannove, ma per tutti sei sempre “er fijo de Francesco”. E con tutto il rispetto per i talenti emergenti, quel marchio sulla schiena pesa come una corazza.
Cristian ci ha provato. Ha fatto le giovanili nella Roma, poi ha girovagato: Frosinone, Rayo Vallecano, Olbia, con una breve comparsata nell'Avezzano mai concretizzata. Ha corso, ha sudato, ha cercato spazio. Ma non basta. Perché per chi porta quel cognome, sei un fenomeno se segni alla prima palla e un fallimento se non lo fai.
Lo avevano notato già da tempo, gli osservatori. Visione di gioco? Ce l’ha. Piede? Discreto. Ma in ogni campo, in ogni allenamento, era come se dovesse dimostrare il doppio per essere accettato. Una guerra impari. E alla fine, una guerra persa.
Nell’ultima stagione, quella del 2023-2024, ha giocato nell’Olbia, in Serie D. Sei partite, 156 minuti, zero gol, una sola ammonizione. Poi via. Contratto rescisso a dicembre, dopo l’esonero dell’unico allenatore che sembrava davvero credere in lui: Marco Amelia, ex portiere della Nazionale, che lo aveva già avuto al Frosinone. Amelia lo ha difeso fino all’ultimo: “Cristian aveva talento, visione di gioco, senso tattico. Ma là dentro – l’Olbia, ndr – c’erano problemi gestionali evidenti”. Non a caso, è saltato pure il presidente.
Ma la verità è più cruda: Cristian Totti è stato ingoiato dal suo cognome. Doveva diventare un campione, è diventato un simbolo di fragilità. Doveva rappresentare il futuro della Roma, è finito in un meme. Il momento più discusso? Un video che lo mostrava appesantito durante un allenamento. Apriti cielo: social in fiamme, commenti feroci, paragoni infami con il padre. Peccato che fosse tutto falso: fisicamente stava benissimo. Ma la gogna, una volta aperta, non si chiude più.
E oggi? Oggi dice basta. Nessun comunicato ufficiale, nessuna intervista lacrimosa. Solo una frase secca, detta a La Nuova Sardegna: “Sì, smetto. Ho preso questa decisione”. Stop. Fine. Sipario. A 19 anni, mentre tanti suoi coetanei ancora sperano in un contratto in Eccellenza, lui appende le scarpette al chiodo. Non per infortunio. Non per mancanza di talento. Ma per sfinimento emotivo.
Certo, non si ritira a mani vuote. Resta nel mondo del calcio, nell’accademia giovanile creata da suo padre e oggi gestita dallo zio Riccardo. Lì seguirà i piccoli, farà scouting, darà consigli. Ma è un ripiego. È come se il calcio gli avesse chiuso la porta da giocatore e aperto solo quella da spettatore.
Un tempo, accompagnava suo padre nei tornei di padel a Poltu Quatu. Tutti a dire: “Guarda com’è cresciuto il pupo”. Poi lo si vedeva nella Roma Under 17, poi nell’Under 18: 15 minuti in tutta la stagione. Poi Frosinone Primavera: quattro presenze, un gol. Poi il Rayo, in Spagna, senza nemmeno finire nel tabellino. E infine, l’Olbia. Sempre in silenzio, sempre con quegli occhi da ragazzo che sa di essere nel mirino.
E ora che ha detto basta, nessuno applaude. Nessuno fischia. Perché a 19 anni non dovresti nemmeno sapere cosa vuol dire fallire. Ma se ti chiami Totti, lo impari presto. Il pubblico ti misura col metro di tuo padre. Gli allenatori ti guardano con sospetto: “Lo vogliamo perché è bravo o perché ci fa pubblicità?”. I compagni ti testano. I giornalisti ti aspettano al varco. I tifosi non ti perdonano niente.
Eppure, chi lo conosceva bene lo diceva da tempo: Cristian non è Francesco. Non ha quel fuoco negli occhi, quella fame di prateria, quella furbizia di strada. È più dolce, più riservato. Un ragazzo normale intrappolato in un cognome da leggenda.
E allora ecco la vera domanda: è Cristian ad aver fallito o siamo noi ad averlo costretto a vivere una carriera che non voleva? Non gli abbiamo dato tempo. Non gli abbiamo dato spazio. Volevamo un nuovo Capitano. Ci siamo dimenticati di lasciargli il diritto di essere solo un ragazzo.
Cristian ha smesso di giocare. Ma non ha mai davvero potuto cominciare.