Dal primo colpo di fulmine nel 2003 a un amore che non si è mai spento: «A Reggio mi sento me stesso. Non ho radici lì, ma ho scelto di piantarle»
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Ogni domenica parte da Londra per seguire la Reggina, affrontando voli, treni, autobus e anche chilometri a piedi. Una volta ha camminato 7 km in autostrada pur di non perdersi una partita. Ha vissuto l’emozione di Bonazzoli a Bergamo, la salvezza col Messina e poi il dolore del fallimento. Ha visto la Reggina risorgere, l’ha seguita ovunque: in Serie B come nei campi di provincia. Una volta è volato a Perugia e ha trovato la partita rinviata per terremoto. Il ricordo del volo cancellato prima della manifestazione dei tifosi a Roma. Eppure non si è mai fermato.
«Non voglio riconoscimenti», dice Adrian Gabor. «Sono solo uno dei tanti che non smette di crederci. Per la Reggina ci sarò sempre, non importa la categoria»
Quando e come nasce il tuo amore per la Reggina?
«Era la fine della stagione 2002/03. In Ungheria trasmisero in TV Reggina–Juventus, mancavano due giornate alla fine e la Reggina doveva vincerle entrambe per salvarsi. La Juve era già campione. Al Granillo c’era un’atmosfera pazzesca: i tifosi spinsero la squadra alla vittoria. Sentii una passione incredibile attraverso lo schermo. È stato lì che è nata la mia storia d’amore. Poi vincemmo anche a Bologna. Ma il momento che non dimenticherò mai è il gol di Bonazzoli a Bergamo nello spareggio salvezza».
Che significato ha per te Reggio Calabria?
«La considero la mia seconda casa. Ho viaggiato in molte città italiane, ma a Reggio mi sento davvero me stesso. Una passeggiata sul chilometro più bello d’Italia, un gelato al bergamotto da Cesare, il museo con i reperti greci, la vista dallo Stretto… tutto lì mi fa stare bene. Penso che la città non si renda conto del suo potenziale turistico. L’espansione dei voli diretti, come quello da Londra, è stata una decisione fantastica».
Com’è vissuto il calcio italiano in Ungheria?
«È molto amato. Tutti hanno una squadra del cuore o almeno simpatizzano per qualche curva. Ovviamente tanti tifano per Milan, Inter, Roma o Juve. Ma ho un amico che è ultras del Venezia da trent’anni. Conosco solo un altro tifoso della Reggina in Ungheria, ha addirittura disegnato la bandiera della sua squadra locale ispirandosi al simbolo dei Boys».
Non hai mai mollato la squadra, nemmeno in Serie D. Perché?
«Non mi interessano le categorie. Nella vita non abbandono chi sbaglia o attraversa momenti difficili, cerco di aiutare. Non importa se giochiamo a Modena o a Licata: sento il dovere di esserci. È per questo che mi dispiace vedere tanta gente allontanarsi dalla Reggina. Ma questa è ancora la nostra squadra. Stesso nome, stessi colori, stessa storia. Spero che la mentalità cambi».
Cosa rappresenta la Reggina per te?
«È difficile dirlo in una parola. Non è solo una squadra. È una comunità che mi ha accolto, anche se non parlo italiano. Ho stretto tante amicizie e sono fiero di farne parte».
Cos’è per te l’essere tifoso?
«Amare il club, non le persone che lo rappresentano temporaneamente. Non è il presidente, non è l’allenatore, non è il calciatore. È la maglia, è l’identità. Ecco perché dopo 22 anni sono ancora qui».
Cosa ti aspetti dal futuro?
«Stiamo vivendo un momento ancora più duro di dieci anni fa. Spero davvero che ci riprenderemo presto, torneremo stabili in Serie C e costruiremo una squadra per lottare per la Serie B».
Quanto ti costa seguire la Reggina?
«Negli ultimi anni molto più di prima. In Serie B prendevo voli per Milano o Bergamo e raggiungevo facilmente le città. Ora devo volare a Catania o Palermo e da lì prendere treni o bus per raggiungere paesi sperduti in Sicilia. I trasporti sono scarsi, i viaggi lunghi e costosi».
Hai ricevuto supporto dalla tifoseria reggina?
«Tantissimo. Non voglio fare nomi per paura di dimenticare qualcuno, ma tanti amici mi hanno aiutato con biglietti, adesivi, sciarpe, magliette… Non lo dimenticherò mai».
Quante volte ti sei chiesto: “Ma chi me lo fa fare?”… eppure ci sei andato lo stesso?
«È interessante che tu mi faccia proprio questa domanda, perché sto lavorando a una nuova maglietta per me stesso con la scritta: “Ci vado anche se non voglio”. È il modo in cui voglio esprimere il mio impegno a vita verso la Reggina: non importa quanto lontano debba viaggiare, io sarò sempre lì a rappresentare la mia squadra».
C’è stata una volta che non sei riuscito a esserci?
«Sì, quando organizzammo la manifestazione a Roma due anni fa. Il mio volo fu cancellato all’ultimo momento. Fu una delusione enorme».
Il viaggio più folle?
«Uno dei più duri fu in Sicilia. A causa dei trasporti inesistenti, camminai 7 chilometri sull’autostrada per raggiungere la città dove giocava la Reggina. Ma non ho mai rimpianto nulla: ne vale sempre la pena. Spero che il prossimo anno si vada solo a Catania e Trapani, evitando i piccoli centri».
Un ricordo strano?
«Una volta a Perugia, in Serie B. Io e mia moglie volammo fino lì, ma all’arrivo scoprimmo che la partita era stata rinviata per una lieve scossa di terremoto. Lo stadio era vuoto, ma andammo lo stesso nel settore ospiti e cantammo per la Reggina».
Come ti senti oggi riconosciuto dai tifosi reggini?
«Mi riconoscono per strada, mi salutano. È bellissimo. Ma io non cerco visibilità. Non sono diverso dagli altri che viaggiano ogni settimana. Per me essere tifoso è semplicemente normale».
Qual è stato il momento più emozionante in tutti questi anni?
«Sicuramente il gol di Bonazzoli a Bergamo. Ma anche il gol di Canotto all’ultimo minuto contro l’Ascoli, che ci portò ai playoff: caddi dalle scale per l’emozione».
Il momento più amaro?
«Dieci anni fa, quando vincemmo il playout contro il Messina e poi in estate arrivò il fallimento. Fu il primo anno in cui vidi la mia Reggina in un campionato dilettantistico. Difficile da accettare».
Hai un coro del cuore?
«Sì, anche se non si canta più da tanto. “Passano gli anni, ma la gente ti segue come sempre e mai ti lascerà, girando per l’Italia intera nel cuore una bandiera, fedele alla città”…»
Un messaggio per i giocatori?
«Devono capire che fanno parte di qualcosa di più grande. La Reggina non è solo una squadra. È una famiglia. Quando scendete in campo al Granillo, giocate con orgoglio. Con passione. Non mollate mai e riportateci nel calcio professionistico dove meritiamo di stare».
È ufficiale: la Reggina ripartirà dalla Serie D, dopo un’annata importante.
«Mi dispiace, ovviamente. Avrei voluto vincere il campionato sul campo. Ma dal febbraio scorso abbiamo fatto tutto il possibile, tante vittorie di fila. La Reggina merita molto di più.»
Adrian Gabor non ha radici a Reggio Calabria, ma ha scelto di piantarle lì con la forza dell’amore. Non ha il passaporto amaranto, ma ha qualcosa di molto più forte: la dedizione cieca, incondizionata, ostinata. La Reggina per lui non è una passione, è una fede. E ogni sua trasferta è un pellegrinaggio.