La riflessione

Una concezione medievale del diritto dietro l’attacco a Nessuno tocchi Caino e al direttore del Dap

Il Fatto Quotidiano e un’interrogazione del M5s hanno messo sotto tiro il dottor Carlo Renoldi, neo capo degli istituti penitenziari, e gli ex parlamentari radicali Bernardini, D’Elia e Zamparutti rei di aver visitato la sezione 41 bis di alcuni carceri sardi. Cosa nasconde tutto ciò?

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di Pasquale Motta
11 luglio 2022
09:45
Carlo Renoldi e Marta Cartabia
Carlo Renoldi e Marta Cartabia

Marco Travaglio ordina di abbattere un presunto nemico della cordata mediatico forcaiola giustizialista e immediatamente i soldati grillini eseguono gli ordini in parlamento. Sotto tiro questa volta è finito il direttore del Dap, Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, l’associazione Nessuno tocchi Caino e suoi dirigenti, in particolare, gli ex parlamentari radicali Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, gli ultimi due, rispettivamente segretario e tesoriere di Nessuno tocchi Caino e ad altri componenti della stessa associazione. Zamparutti, tra l’altro, è anche rappresentante per l’Italia del comitato europeo per la prevenzione della tortura.

L’impegno e l’attenzione di Nessuno tocchi Caino per il mondo delle carceri è noto. È alla base dei valori costitutivi di questa associazione. E tra l’altro un impegno che viene da lontano, dal patrimonio di battaglie condotte da Marco Pannella.


Nessuno tocchi Caino, e i suoi dirigenti da anni si battono per il rispetto della condizione dei detenuti. Attenti difensori dei diritti delle persone che ruotano intorno all’universo carcerario. I dirigenti radicali vanno su e giù per il paese visitando le strutture carcerarie. Le loro posizioni sono note e, i radicali, non hanno mai nascosto la loro avversione al regime del 41 bis, il carcere duro riservato ai mafiosi. Una posizione, quella di Nessuno Tocchi Caino, trasparente. In linea con i profili delle associazioni umanitarie.

Le battaglie dei dirigenti di Nessuno Tocchi Caino tendono inoltre a tenere aperto il dibattito sulla riforma del sistema carcerario. Da poco il direttore del Dap è Carlo Renoldi, un garantista molto sensibile ai temi del rispetto dei diritti dei detenuti. In quella postazione lo ha voluto la Ministra di Grazia e Giustizia, Marta Cartabia. La stessa ministra che ha introdotto un minimo di riforma della giustizia.

E per la prima volta, lo ha fatto senza riverenze verso la casta della magistratura e, soprattutto, verso l’universo giustizialista di Travaglio e company. Per tali motivi, la Cartabia, fine costituzionalista, presidente emerita della Corte Costituzionale, cattolica militante, è invisa ai giustizialisti, alle rete dei professionisti dell’antimafia, a tutto il mondo pentastellato e a certi pm icone della lotta alla ndrangheta 4.0, quella cioè, che fa rumore nell’inchiesta e naufraga clamorosamente nelle sentenze.

Torniamo al punto. Cosa ha fatto il nuovo direttore del Dap per aver scatenato il furore del Fatto Quotidiano di Marco Travaglio? Niente che non avesse già fatto nel passato. Ha concesso alla delegazione di Nessuno tocchi Caino di accedere alle sezioni destinate al 41 bis. Secondo il Fatto Quotidiano, ciò sarebbe un fatto inedito e, un pericoloso buco al regime del 41 bis.

Una ricostruzione quella del giornale di Travaglio, smentita da Bernardini, D’Elia e Zamperutti  dalle colonne del Il Riformista” Scrivono infatti i tre dirigenti radicali: «Il Fatto Quotidiano ha spiato dal buco della serratura quello che avevamo fatto alla luce del sole. Bastava ascoltare le nostre videoregistrazioni pubbliche per sapere che eravamo stati autorizzati a visitare 5 carceri sarde e anche le sezioni del 41-bis».

«Una visita autorizzata, come tante altre, - proseguono Bernardi, D’Elia e Zamperutti - dal Dap e quindi non una visita senza precedenti come tuona erroneamente il giornale. Visitammo infatti il 41-bis di Viterbo nell’aprile 2019 e negli anni precedenti anche quelli di Parma e Tolmezzo. Al Fatto e ai suoi parlamentari stellati consigliamo di leggere e di meditare sul rapporto di 11 pagine che abbiamo redatto alla fine delle visite in Sardegna e trasmesso al Capo del Dap. Capirebbero e interrogherebbero il ministro della Giustizia sul vero scandalo. Non lo scandalo dell’allarmante visita al 41-bis, un regime che, ribadiamo, è una forma di “tortura democratica” e come tale da riformare. Ma lo scandalo della carenza allarmante di direttori (solo tre per dieci istituti penitenziari), di comandanti della polizia penitenziaria (a scavalco in diversi istituti), di educatori. Lo scandalo delle condizioni di vita di tutti i detenuti, di una vita in carcere dove le attività (lavoro, scuola, sport, cultura) sono ridotte al lumicino e le giornate trascorrono in un disperato ozio. Per non parlare dello scandalo del diritto alla salute negato in molti casi, compresi quelli psichiatrici che sono centinaia».

Un’altra storia, dunque, quella raccontata dai dirigenti di Nessuno tocchi Caino, che smentisce la ricostruzione del quotidiano diretto da Travaglio. In una democrazia liberale normale e di tipo europeo, la vicenda sarebbe passata come una circostanza assolutamente ordinaria. Ma noi non siamo una democrazia liberale normale. Noi siamo istituzionalmente liberali solo sulla carta.

La qualità della vita carceraria ci colloca tra i peggiori d’Europa. Senza parlare del fatto che, nelle nostre patrie galere, sono rinchiusi migliaia di persone  ancora in attesa di giudizio e senza neanche una sentenza di primo grado. Tant’è che, l’Europa, per tali motivi ci ha sanzionato più volte.   

La polemica sollevata dal Fatto Quotidiano, giornale vicino alle procure e contemporaneamente al gruppo politico (o quel che ne rimane del M5S) certifica l’anormalità della nostra democrazia. Tra l’altro, il cosiddetto “caso”, è stato sollevato in queste ore, ma risale a due mesi fa. Rita Bernardini aveva richiesto la visita dei penitenziari di Sassari e Nuoro con una mail il 2 maggio.

Secondo il giornale di Marco Travaglio, e di tutti i fogli online di ogni ordine e grado legati al professionismo dell’antimafia militante e  pronti a rilanciare ogni fatwa lanciata dal quotidiano delle procure, l’ex parlamentare radicale Rita Bernardini avrebbe richiesto l’accesso ai 41 bis, senza specificarne le ragioni. Un’obiezione abbastanza curiosa. Nessuno tocchi Caino si occupa di diritti delle persone detenute. Quale motivazione avrebbe dovuto addurre? La polemica  innescata dal Fatto, viene immediatamente raccolta dal gruppo del M5S, i quali presentano un’interrogazione parlamentare. Una tempesta in un bicchier d’acqua, considerato la puntuale replica dei dirigenti di Nessuno tocchi Caino.

La polemica contro il direttore del Dap nasconde altro. L’obiettivo è il ministro Cartabia, rea, per il Fatto Quotidiano, di aver nominato un garantista in quel ruolo. Al momento della nomina la battaglia è stata furibonda e a dar manforte a Travaglio e ai grillini sono arrivate anche le truppe di Salvini, garantista a corrente alternata.

Il membro del Csm Di Matteo ha votato contro la nomina nel plenum. Di Matteo, un’altra icona antimafia star, lo stesso che da pm ha gestito il naufragato processo Trattativa e la gestione del falso pentito Scarantino che, di fatto ha depistato le indagini sulla strage Borsellino. Le parole della figlia di Borsellino in merito al depistaggio sulla strage via D’Amelio di qualche giorno fa sono state dure come pietre, anche con Di Matteo, e la dicono lunga sugli “eroi” tanto cari ai grillini e all’antimafia militante.

Carlo Renoldi è l’opposto dei pm star, magari scrittori e sempre alla ribalta dei media e alla ricerca della “sparata più grossa” per conquistare quotidianamente le prime pagine dei giornali. Il nuovo direttore del Dap è stato magistrato penale e poi di sorveglianza. Fino alla nomina al Dap consigliere di Cassazione. Sempre lontano dalla ribalta mediatica. Tra i suoi riferimenti e maestri c’è Alessandro Margara, che fu capo del Dap, ispirò la riforma Gozzini (la più liberale della storia italiana) ed è passato alla storia perché trattava i detenuti come uomini con diritti.

Il suo era un “carcere dei diritti”. Sia dei detenuti, sia degli agenti. Troppo per l’autoritarismo di Travaglio e company. E forse per questi motivi sta sullo stomaco al giornale dei giustizialisti italiani. Il network del giustizialismo nostrano in quel ruolo preferirebbe magari un direttore torturatore

E, d’altronde, il veleno traspare dal pezzo di Antonella Mascali sul Fatto, che ricordando la nomina sottolinea: «Fatta tra le proteste delle associazioni antimafia e dei familiari delle vittime». Una curiosa interpretazione del ruolo delle associazioni antimafia, secondo la quale, si dovrebbe assumere il loro parere preventivo e vincolante alle politiche giudiziarie di questo paese come verità divina. Il resto del pezzo è costituito da una serie di sottolineature sprezzanti, quasi rancorose verso dirigenti di Nessuno tocchi Caino.

Il governo Draghi, al ministero di Grazia e Giustizia, ha portato un ministro competente, il quale di fronte ai diktat dei Travaglio e dei girotondini antimafia, ha tirato dritto per la sua strada. Linea che, dopo la sua nomina al Dap, è stata seguita anche dal dottor Renoldi, il quale ha firmato un permesso a Bernardini e alla delegazione di Nessun tocchi Caino perfettamente lecito.

Tuttavia, la vicenda è avvilente sia sul piano culturale che sul piano politico. Travaglio e tutto l’universo dell’antimafia di professione sono ormai  fermi ad uno schema datato 30 anni fa. Per costoro, infatti, non è contemplata la possibilità che un uomo, dopo decenni e decenni di carcere duro, seppur non ritenendo di collaborare, possa cambiare e, sottolineo, cambiare, che non vuol dire redimersi.

La loro visione è semplice: chi si trova recluso in regime di 41 bis deve marcire lì dentro fino alla fine dei suoi giorni (ergastolo ostativo). Anche se malato. Anche se le sue condizioni psicofisiche sono incompatibili con il regime carcerario. A meno che, non decida di collaborare. Una visione tribale, medievale, della funzione punitiva dello Stato che, tra l’altro, non è contemplata dalla nostra costituzione.

Per Travaglio e i suoi sceriffi mediatici e politici, dentro e fuori del Parlamento, la fotografia deve rimanere fissa allo schema di 30 anni fa. Al clima di emergenza dell’epoca della stragi e da cui sono scaturite leggi e normative (la cosiddetta legislazione antimafia) in evidente contrasto con i rudimenti della Costituzione. Il contesto dell’epoca era simile a quello di una guerra civile. Le scelte legislative, nacquero in quel clima di terrore, derogando, forse giustamente, dai fondamentali rudimenti della  carta costituzionale. Oggi non siamo più in quel contesto. Una nazione democratica, liberale ed europea dovrebbe ricercare la via legislativa ad un graduale ritorno alla normalità.

Eppure, la narrazione della lobby mediatico-giudiziaria della rete antimafia vorrebbe tenerci ancorati a quel clima. Un clima che ha determinato la fortuna e le carriere di magistrati, giornalisti e politici. Nel corso di questi 30 di emergenza sono state prodotte molteplici norme liberticide. Non sarebbe forse arrivato il momento di rivedere questa impalcatura legislativa? La visione reazionaria e conservatrice di un pezzo di sistema sostiene di no.

Si oppone a qualsiasi nuova lettura della realtà, sia sul piano istituzionale che sociale. Una concezione di questo tipo dello stato di diritto, è tipica di una visione autoritaria dello Stato, piuttosto che di una visione liberale. Il paradosso è che in Italia, una tale visione, oserei dire quasi fascista, è sostenuta da un pezzo di sinistra e da un pezzo del Pd. Il mondo progressista, compreso molti psudo intellettuali, per una serie di ragioni, che qui non c’è il tempo di analizzare, si è legato a questa visione illiberale del sistema giudiziario e dello Stato. Una anomalia mostruosa sul piano dei contenuti valoriali.

Insomma, per farla breve, una certa sinistra ha sostituito  “L’Unità” con “Il Fatto Quotidiano”. Fino ad arrivare al  punto di una visione doppio pesista anche rispetto alla difesa dei valori della costituzione. La bandiera della difesa della Carta è sempre in alto, quando si tratta di dare addosso a Berlusconi, Renzi, Draghi, Cartabia. L’indifferenza verso la violazione dei valori costituzionali e dei diritti umani, invece, quando si tratta di difendere battaglie che oggi, in questo paese, sono difese solo da persone come Rita Bernardini, Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e associazioni come Nessuno tocchi Caino.

Una sinistra che si indigna solo quando nelle maglie di questa “giustizia impazzita” finiscono Niki Vendola o Mimmo Lucano e rimane indifferente all’attacco reazionario contro un direttore del Dap come Carlo Renoldi, o Rita Bernardini o l’associazione Nessuno tocchi Caino. Una sinistra con questa visione distorta di se stessa e della realtà, è una sinistra già morta e sepolta. Fuori dalla storia da tempo.

La polemica contro Renoldi e Nessuno tocchi Caino è stata sconsiderata al momento della nomina e risulta ancor più sconsiderata oggi, sulla base di menzogne costruite nel circo mediatico del giustizialismo nostrano, e finalizzate alla delegittimazione del capo del Dap.

È utile ricordare le parole del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, recentemente scomparso, in difesa della nomina di Renoldi. «Il curriculum e le esperienze» del giudice Renoldi «lo rendono, a mio parere, molto adatto a ricoprire il ruolo di capo Dap. Il carcere - sottolinea ancora Onida - ha mille bisogni. Dentro il carcere, vive un'intera umanità: fatta di detenuti e agenti, di cui bisogna garantire la dignità. È un equivoco pensare che un carcere con più diritti sia meno sicuro, anche rispetto ai mafiosi. Per ogni detenuto, in base al suo reato, ci saranno poi accorgimenti particolari».

Una democrazia solida, per riformare il regime carcerario dovrebbe partire da una riflessione come questa e non dalle irresponsabili fatwa del circo mediatico giudiziario di questo scassato paese.

Giornalista
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