Ferruzzano, il luogo del vino e dei silenzi

Da una parte la montagna, dall'altra la spiaggia e il mare. Viaggio nel paese reggino dove il tempo si è fermato

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di Giuseppe Gervasi
15 dicembre 2022
15:50

Durante la notte un forte mal di schiena ha tentato di frenare il mio viaggio alla scoperta del luogo del vino, dove i terremoti hanno fatto muovere rocce e persone.

Esco di casa prestissimo e mi rifugio nell’abitacolo della mia auto ancora freddo, in attesa che l’area calda faccia il suo dovere.


Raggiungo la marina di Ferruzzano, percorrendo la 106 jonica verso Reggio Calabria.

Da una parte la montagna, nel mezzo la strada, poi la linea ferroviaria e infine la spiaggia e il mare.

Un panorama mozzafiato che costringe il viaggiatore a soste di bellezza e stupore.

È tutto inaspettato in questa terra dove non sai mai cosa si nasconde dietro una curva, dietro un angolo di paese, dietro una barca, dietro un faro che attende la notte, dietro una torre di guardia, dietro un castello fortificato, dietro un monastero, dietro un convento, dietro una parola in greco antico.

Dopo aver imboccato il bivio per Ferruzzano Superiore, inizio a salire con l’auto e raggiungo il vecchio paese.

In bilico su un’altura rocciosa, vive il suo presente.

Case sole, appoggiate su rocce verdi, abbandonate e silenziose. Le finestre aperte a lasciar passare il vento, la sua voce, il suo respiro, il suo grido di speranza, i suoi brividi d’inverno, la sua dolce carezza in primavera, la sua piacevole sensazione in estate, la sua malinconia in autunno.

Passeggio in una strada verde, ascolto solo i miei passi.

Sui balconi arrugginiti vedo donne di un tempo ad accudire vasi di fiori.

Più in là una casa albero, sospesa nel vuoto.

Il verde si è aggrappato alla sua anima di pietra, la porta non c’è, le finestre neppure.

A cosa servono?

“Entrate, favorite, sedetevi!”

Non è forse questa l’indole Grecanica che tutti assaporano in questi posti?

Lascio per il momento il paese di Ferruzzano e mi immergo nel bosco di Rùdina.

Il canto degli uccelli fa danzare gli alberi, i massi di color verde, le foglie per terra e una sabbia fine, che abbraccia le mie scarpe, mi regalano un dipinto divino.

Le nuvole per il momento hanno lasciato il posto al sole, ad un po’ di azzurro macchiato di bianco.

Si infiamma la roccia, mentre strisce di ombra calmano il fuoco.

In questo luogo fiabesco è come se gli alberi si appoggiassero alle rocce.

È come se gli alberi uscissero dalle rocce.

È come se le rocce si aprissero lasciando uno spazio visivo, immaginario e rilassante.

Mi fa compagnia un bastone, la schiena ha bisogno di aiuto e lentamente riprendo il cammino verso Ferruzzano.

Lascio il bosco divino e del vino, dei palmenti rupestri scavati nella roccia, dove una tempo nasceva la bevanda di Bacco, per i romani, Dioniso per i greci.

Il nettare degli Dei, l’estasi, l’ebbrezza, il sapore della bellezza, il profumo dell’uva ancora inebria l’area di Rùdina e mi rimane addosso.

Arrivo in una piazza, che fa rivivere la storia passata e poi mi reco verso una balconata: il Belvedere.

Il cammino diventa più duro, non più la sabbia color ambra sotto i miei piedi ma il cemento, amore falso e utopico dell’uomo moderno.

Mi avvicino alla ringhiera, storta e stanca, che a fatica esce dall’erba ai suoi piedi.

Innanzi a me la natura salvifica.

Le nuvole alte e scure, bucate da cerchi azzurri.

Nel gradino più basso della scala del cielo diventano più chiare, finché non toccano l’ultimo dei gradini: il paradiso di acqua.

Riprendo il passo.

Una parete, le tegole come una corona, una porta aperta nel vuoto si perde sui rami di un albero spoglio, pronto a fiorire nonostante il silenzio e il nulla.

Una trave coraggiosa non molla e poi un numero inciso: 29, su una mattonella bianca, nuova e fuori luogo.

A Ferruzzano le case hanno come tetto il cielo: nuvoloso, nero, azzurro, pieno di stelle, di paure e di sogni.

Tutto tace, tutto è fermo, ma allo stesso tempo miracoloso.

Un’altra casa senza porta, il verde incornicia l’arco, macerie di vita accatastate da un tetto che crolla e non resiste alla vita, alla voglia di libertà.

Una costante, solo il perimetro, solo la delimitazione di uno spazio alla disperata ricerca di una nuova storia.

Alla mia destra i rami di un albero formano una galleria, dove è possibile vedere l’inizio e anche la fine, immaginare la vita dei fanciulli, la loro corsa e i loro giochi, di un padre che torna stanco la sera e delle donne sedute fuori a gustare la brezza calda di un’estate passata.

Innanzi a me una scala, i gradini tremano mentre salgo, mentre respiro.

Non busso, naturalmente non c’è la porta.

“Posso entrare?”

Nessuno risponde, ma il rispetto per i luoghi è doveroso.

Un cucinino, una macchinetta per il caffè, dei bicchieri, dei piatti.

Il tempo si è cristallizzato, attende ancora.

Pulisco uno specchio appeso ad un muro, tolgo la polvere per vedere i miei lineamenti, mi rivedo, ma non mi riconosco.

Altri passi, il pavimento parla mentre entro in una stanza: doveva essere il salotto.

Le pareti macchiate, un balcone aperto, il tetto ferito, un contatore della luce e in mezzo alla stanza una sedia o quel che resta.

Difronte a me un televisore stanco e un vecchio telecomando.

Sono tentato di accendere la TV, ma non è casa mia.

Forse qualcuno sta già guardando un film, in una casa apparentemente vuota, in un paese forse disabitato.

Lo sguardo si perde su delle bottiglie vicino al balcone, le conto, sono 9.

Mi piace pensare che nelle bottiglie ci sia il vino di Ferruzzano e che di notte, con la TV accesa, si beve, si mangia e poi si va a dormire e forse a sognare.

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