Settantanove anni fa, un Paese ferito dalla guerra si rialzava col voto al referendum, con il primo Giro repubblicano e con la forza di chi credeva nella democrazia. Oggi festeggiamo quella rinascita
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Nel 79º anniversario del referendum che cambiò il volto dell’Italia, riviviamo i giorni tumultuosi che segnarono la nascita della Repubblica: una scelta sofferta, una nazione divisa, un futuro da ricostruire.
Dopo un ventennio di facili menzogne, falsi trionfalismi e una guerra sciagurata, il nostro Paese si risveglia povero e affamato. La popolazione è a pezzi. Strade, ferrovie e case sono ridotte a un cumulo di macerie. A raccontare meglio l’Italia di quei giorni ci penserà il cinema. Capolavori assoluti del Neorealismo come Roma città aperta, Ladri di biciclette e Riso amaro rappresentano ancora oggi il miglior ritratto di un’epoca.
L’Italia si appresta a vivere una crisi d’identità. Una netta divisione che si riflette nel referendum del 2 giugno 1946. In quei giorni, lo scontro fra monarchici e repubblicani infiamma la vita politica del Paese. I contrasti, già esplosi durante la guerra partigiana, si riflettono in vista della battaglia elettorale. E per la prima volta nella storia d’Italia votano anche le donne. Quasi 25 milioni di persone si recano alle urne: 12.998.131 sono donne, 11.949.056 uomini. È l’alba della Repubblica.
Due le schede, due le scelte: Monarchia o Repubblica? Continuare con Casa Savoia, che ha condotto l’Italia dentro due guerre mondiali, che ha firmato le leggi razziali, che è fuggita da Roma nella notte dell’8 settembre? O voltare pagina?
Alle urne
Il decreto del 10 marzo 1946 fa partire la macchina elettorale. Per la prima volta nella storia d’Italia, non solo le donne possono votare, ma anche candidarsi. Il sistema è complesso ma democratico: liste di partito in ogni circoscrizione, voto proporzionale, possibilità per gli elettori di esprimere fino a quattro preferenze. È una rivoluzione silenziosa che cambia il volto della democrazia italiana.
L’Italia che va al voto è un Paese dai confini ancora incerti, ferite aperte della guerra. L’Alto Adige e la Venezia Giulia, sotto amministrazione alleata e jugoslava, restano esclusi dall’elezione dei costituenti. A Trieste, città contesa, si può solo sognare il ritorno all’Italia. Paradossalmente, invece, votano due comuni che l’Italia sta per perdere: Briga Marittima e Tenda, ceduti alla Francia come prezzo della pace, partecipano al loro ultimo atto di democrazia italiana. È un’Italia che si sta ancora definendo, che cerca di capire dove finisce e dove comincia.
La campagna referendaria infiamma il paese. Il 61,4% della popolazione italiana è chiamato alle urne – tutti i cittadini sopra i 21 anni. La Costituzione che nascerà due anni dopo – e che resta ancora oggi il fondamento della nostra democrazia – è figlia di quel voto. Di quel coraggio. Di quella voglia di ricominciare.
È nata la Repubblica italiana
Il 4 giugno i primi dati sembrano premiare la Monarchia. In particolare, il Sud vota compatto per Umberto II. Ma sono parziali. Il 5 giugno, a spoglio avanzato, «L’Unità» titola: «Vince la Repubblica». La sera stessa, Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio, comunica a Umberto che il vantaggio repubblicano è ormai irreversibile.
Il 6 giugno, il «Corriere della Sera» saluta la nuova era. In prima pagina appare il volto della Repubblica, è quello di Anna Iberti. Federico Patellani l’ha fotografa con un giornale in mano che titola «È nata la Repubblica italiana». Il suo sorriso diventa il simbolo della nuova Italia. Non è una modella, ma una giovane giornalista. Solo nel 2016 qualcuno la riconoscerà.
È lei, Anna, la ragazza del 2 giugno. La ragazza del sì. Il 10 giugno, la Corte di Cassazione proclama i risultati provvisori: 12.672.767 voti alla Repubblica, 10.688.905 alla Monarchia. Ma si riserva la decisione finale al 18 del mese.
Umberto II non ci sta. Il re di maggio scrive un proclama durissimo: «Questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente della Magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario». Si rifiuta di firmare il trasferimento dei poteri, ma decide di partire. Il 13 giugno 1946 lascia Roma per Lisbona, senza abdicare, ma sciogliendo i militari dal giuramento al re.
Dopo quella notizia, Napoli brucia. L’11 giugno, in via Medina, la polizia ausiliaria – composta da ex partigiani – spara su una manifestazione di monarchici: sette morti, tra cui un ragazzo di 14 anni, Carlo Russo. L’Italia nasce nel sangue, ma nasce libera.
Il 18 giugno, la Corte respinge i ricorsi monarchici nella Sala della Lupa. Sono 12.717.923 i voti per la Repubblica, 10.719.284 per la Monarchia. Le schede bianche e nulle, reclamate dai monarchici per annullare il risultato, vengono escluse dal computo. La Repubblica è legge.
Il Giro della Rinascita e Malabrocca
Proprio questi confini incerti e queste ferite ancora aperte rendono altamente simbolico il primo grande evento dell’Italia post-referendum: il Giro d’Italia. L’appena nata Repubblica affida allo sport il compito di ricreare l’idea di una nazione, ricucire le ferite inferte al corpo del Paese e far dimenticare gli orrori della guerra. Si ricomincia con il primo Giro che viene così ribattezzato «il Giro della Rinascita». Di tutti: corridori e pubblico. È un po’ come se l’Italia intera risorgesse con i ciclisti. L’ottimismo necessario per ricostruire il futuro.
Con le prime tappe, la carovana di ciclisti attraversa un Paese semidistrutto, sotto le cui rovine però il cuore continua a battere. Gli italiani ritrovano il piacere di tifare e vivere dopo la paura delle bombe. Grazie allo sport, tornano a riempire anche le strade e a palpitare per quei corridori che sudano in bicicletta. Sembrano quasi i protagonisti di una medesima impresa, quella della ricostruzione di un intero Paese.
Ma il Giro della Rinascita diventa anche il palcoscenico più rovente delle divisioni politiche nate dopo la liberazione. In occasione della dodicesima tappa, alcuni attivisti favorevoli all’annessione di Trieste alla Jugoslavia bloccano i corridori alle porte della città.
Scontri a fuoco, blocchi stradali e lanci di pietre contro i ciclisti fermano il Giro. Tappa annullata e ripartenza da Udine. Alla fine vincerà Gino Bartali, un campione dell’Italia vecchia che si fa simbolo della nuova. Ultimo, invece, sarà Luigi Malabrocca. In quei giorni, per sbarcare il lunario, bisogna inventarsi di tutto, anche nello sport. Luigi Malabrocca, la «maglia nera» più famosa di sempre, lo sa bene. Nei giri dell’immediato dopoguerra la sua missione non sarà arrivare primo in classifica, ma ultimo: e così si aggiudicherà fiaschi di vino, formaggi e bottiglie d’olio. Malabrocca assurge a simbolo di un’Italia ancora contadina e cattolica, ma anche autentica, umana.
Una svolta democratica
Come Malabrocca nel Giro, anche la giovane Repubblica deve partire dall’ultimo posto. C’è un paese da ricostruire, una democrazia da inventare. Il 25 giugno si riunisce l’Assemblea Costituente. Il 28 elegge Enrico De Nicola Capo provvisorio dello Stato. La Costituzione entrerà in vigore il 1° gennaio 1948. L’Italia diventa una Repubblica parlamentare, fondata sul lavoro e sulla sovranità popolare.
Una democrazia conquistata, non concessa. Il presidente Sergio Mattarella lo ricorda ogni anno: «Il 2 giugno del 1946, l’Italia entrava a far parte a pieno titolo delle nazioni libere e democratiche. Non soltanto perché prevalse la Repubblica, ma perché, per la prima volta, tutti i cittadini – uomini e donne – concorsero alla scelta». Nessun broglio, dunque, la statistica conferma. Nel 2012 uno studio basato sulla legge di Benford dimostra che non ci sono state manipolazioni nei risultati. I voti per la Repubblica sono autentici. La svolta è vera. È democratica.
Oggi, 2 giugno 2025, settantanove anni dopo, quella scelta ci riguarda ancora. È la festa della libertà. È la festa della Repubblica. È la nostra festa.