Non ha chiesto di pregare, ma di non smettere di sentire. Nel tempo della disillusione, Francesco è stato la voce morale di chi aveva perso la fede ma non l’anima
Tutti gli articoli di Attualità
PHOTO
Papa Francesco (VATICAN MEDIA / CPP- Ipa)
C’è un’immagine che resterà di papa Francesco più di ogni altra: non quella del pontefice affacciato dal balcone di San Pietro, ma quella dell’uomo seduto da solo, sotto la pioggia, nella piazza vuota della pandemia. Un pastore senza gregge davanti al mondo fermo. Non un simbolo della religione, ma dell’umanità. Da lì, forse, è cominciato tutto: la conversione dei non credenti a un’etica del bene.
Francesco è stato il papa che ha tolto Dio dal piedistallo per rimettere al centro l’uomo. Un’eresia? Forse. Ma anche una necessità, in un tempo in cui l’etica laica ha perso forza, il relativismo si è trasformato in alibi, e la coscienza in optional.
Ateismo e cattolicesimo, laicità e Chiesa, dubbio e fede — tutto ciò che sembrava inconciliabile, per un attimo, si è toccato.
E il punto d’incontro non è stato un dogma, ma un volto. Quello di un uomo che, in tempi di arroganza spirituale e miseria morale, ha ricordato che il bene non ha bisogno di miracoli, ma di mani pulite.
Ha parlato ai credenti in un linguaggio umano, e ai non credenti in un linguaggio cristiano. Ha confuso i primi e spiazzato i secondi. Ed è proprio in questa confusione che ha rivelato la sua grandezza.
Perché Francesco non ha mai chiesto di credere: ha chiesto di agire. Non ha predicato il dogma, ma la responsabilità. Non ha costruito un nuovo catechismo, ma un nuovo lessico morale. E in un mondo che da troppo tempo scambia l’indignazione per etica e la compassione per debolezza, lui ha rimesso in circolo la parola “bene” senza imbarazzo.
I laici, gli agnostici, gli irriverenti di professione, lo hanno ascoltato come si ascolta un maestro antico. Non perché parlasse di Dio, ma perché parlava dell’uomo.
Il suo “amate gli ultimi” non era un versetto del Vangelo, era un imperativo civile. Il suo “non voltatevi dall’altra parte” non era un’esortazione spirituale, era un ordine morale. E chi non credeva, improvvisamente, si è accorto di poterlo seguire.
In fondo, Francesco ha fatto alla religione quello che Voltaire fece alla ragione: l’ha resa universale. Ha scardinato il recinto confessionale e ha fatto della Chiesa una piazza, non un tempio.
E quella piazza si è riempita di atei, dubitanti, delusi, sognatori, gente che non sa più dire “Dio” ma ancora sa dire “giusto”.
Oggi che il suo pontificato è finito resta un interrogativo amaro: quell’etica che ci ha restituito, sopravviverà senza di lui?
Resisterà la compassione in un tempo che premia la competizione?
Resisterà la sobrietà in un mondo che misura tutto in profitto e consenso?
Resisterà l’uomo, senza il pontefice che lo ha rimesso al centro?
Può sopravvivere un’etica senza un testimone credibile?
Possono i laici continuare quella rivoluzione silenziosa – la rivoluzione della coscienza – senza la voce che l’ha accesa?
Forse sì, se capiremo che l’essenza del suo messaggio non era religiosa ma civile: il richiamo a un bene comune che non ha bisogno di altari, ma di coraggio. Forse no. Ma resta la gratitudine di un’intera generazione di credenti e non che, per qualche anno, ha avuto un papa. Un papa che non voleva essere papa dei laici, ma lo è diventato.
Un uomo che ci ha ricordato che la fede è un dono, ma la coscienza è un dovere. Un papa che ha fatto della morale laica la sua preghiera quotidiana, e della tenerezza una rivoluzione silenziosa.
E quando tutto sarà archiviato nei libri di storia, resterà questa eredità: che anche senza credere si può essere migliori, che anche senza Chiesa si può avere un’anima, e che – come ci ha insegnato Francesco – il Vangelo più autentico è quello che non ha bisogno di essere creduto per essere capito.