Fino a quando continueremo a pensare il senzatetto come un problema estetico o di ordine pubblico e non come l’indicatore più brutale del fallimento delle nostre politiche redistributive e della nostra capacità di empatia queste violenze continueranno
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Quando un senzatetto viene preso a calci, sputi o bottigliate da un gruppo di ragazzi – spesso minorenni – in una stazione, sotto i portici, in un parco o per le vie del centro, non stiamo assistendo semplicemente a un atto di “bullismo estremo”. Stiamo osservando l’attivazione di meccanismi antichissimi che, lungi dall’essere superati dalla modernità, si sono soltanto camuffati sotto la patina del benessere e dell’educazione formale.
Il clochard rappresenta, nella nostra società, l’ultimo gradino visibile della gerarchia sociale. Non è povero “come tanti”: è povero in modo esibito, oltraggioso, ingombrante. Dorme dove noi passiamo, puzza dove noi profumiamo, esiste dove noi vorremmo solo transitare. È, in termini antropologici, il capro espiatorio perfetto, cioè colui sul quale può essere scaricata tutta l’ansia prodotta dall’idea che la caduta sia possibile, che il confine tra “noi” e il “baratro” sia terribilmente sottile.
René Girard, famoso tra i filosofi e critici letterari del Novecento, ha spiegato come ogni società abbia bisogno di vittime sacrificali per contenere la violenza interna. Il clochard è la vittima sacrificale laica dei nostri tempi. Aggredendolo, il gruppo riafferma la propria coesione (“noi non siamo lui”) e contemporaneamente esorcizza la paura collettiva del declassamento. Non è un caso che gli aggressori siano spesso adolescenti o giovanissimi, cioè sono i soggetti più esposti all’ansia di status in una società dove il valore personale è misurato quasi esclusivamente dal consumo e dall’apparenza.
Ma c’è un secondo meccanismo, altrettanto potente, come la deumanizzazione percettiva. Gli studi di psicologia sociale (da Zimbardo a Haslam) dimostrano che quando un essere umano viene privato dei marcatori di dignità – abiti decenti, igiene, casa, lavoro – il cervello degli osservatori tende a “spegnere” l’attivazione delle aree empatiche (corteccia prefrontale mediale e giro temporale superiore). Il clochard cessa di essere percepito come “uno di noi”. Diventa un oggetto, un ostacolo, una cosa. A quel punto, picchiarlo non produce più il senso di colpa che proviamo quando colpissimo un coetaneo “normale”.
Questo processo è accelerato dalla dinamica di gruppo. Bauman parlava di “adiaphorizzazione”, cioè l’azione diventa moralmente neutra perché è condivisa. Quando si è in branco, la responsabilità si dissolve (“l’ha iniziato lui”, “eravamo tutti ubriachi”, “tanto non conta niente”). L’aggressione diventa una specie di rito, cioè dimostrare di appartenere al gruppo passando sopra a chi è già stato espulso dal consesso umano. È la stessa logica che portava i giovani maschi delle società tradizionali a cacciare il primo cervo o a superare prove di coraggio: solo che qui la preda è l’essere umano più debole.
Un caso emblematico di questi meccanismi in azione è quello accaduto qualche giorno fa a Cosenza. Cristofer, noto a tutti come Cristian – un senzatetto di origini austriache che da anni vive per strada sul corso principale, in compagnia dei suoi cani, è stato brutalmente aggredito da ignoti vigliacchi, finendo in ospedale con il volto tumefatto e coperto di sangue. Cristian non è un estraneo ma una figura familiare per i cosentini, un uomo che chiede l’elemosina con dignità, che ama la squadra locale e che molti fermano per un saluto o un piccolo aiuto. Eppure, qualcuno ha scelto di ridurlo a un bersaglio, violando non solo il suo corpo ma l’intera comunità che lo riconosce come “amico di tutti”. Questo episodio non è isolato. È il sintomo di come, anche in una città del Sud Italia – dove la solidarietà familiare è proverbiale – la marginalità diventi pretesto per sfoghi repressi, forse legati alla precarietà diffusa o al decoro urbano che il corso, arteria commerciale e cuore pulsante, pretende di preservare a ogni costo.
C’è poi un aspetto specificamente italiano, che rende queste scene ancora più inquietanti. Da noi il clochard non è solo il fallito. È il fallito che disturba l’estetica. L’Italia è il Paese dove la bellezza pubblica è ancora un valore collettivo (pensiamo alle proteste per i graffiti o per i bivacchi). Il senzatetto che dorme sui masegni di Venezia o sotto i portici di Bologna non viola solo le norme igieniche o di sicurezza, ma viola il decoro. E il decoro, in Italia, è sacro quasi quanto la famiglia. Aggredirlo diventa, paradossalmente, un modo distorto di “difendere la città bella”. A Cosenza, dove Corso Mazzini è sinonimo di vitalità e commercio, l’aggressione a Cristian potrebbe assumere i contorni di un sacrilegio doppio: non solo contro un uomo fragile, ma contro l’armonia sociale che quel luogo evoca.
Infine, c’è la rimozione collettiva. La stessa società che produce marginalità estreme (con politiche abitative inesistenti, sanità mentale distrutta, lavoro precario e salari da fame) poi si scandalizza quando i suoi figli più giovani mettono in scena la violenza che quella stessa società ha generato strutturalmente. Quei ragazzi non sono “mostri”: sono il prodotto coerente di un sistema che insegna che chi è in basso merita di starci, e che la forza è l’unico linguaggio rimasto quando falliscono tutti gli altri.
Fino a quando continueremo a pensare il clochard come un problema estetico o di ordine pubblico, e non come l’indicatore più brutale del fallimento delle nostre politiche redistributive e della nostra capacità di empatia, queste aggressioni continueranno. Sono la fotografia impietosa di una società che ha smesso di considerare la dignità qualcosa di inalienabile, e l’ha trasformata in merce di lusso riservata a chi può permettersela. Il caso di Cosenza ce lo rammenta con crudeltà: Cristian, con i suoi cani e il suo amore per una città che lo ha accolto, è il nostro specchio rotto. E finché non saremo disposti a guardarlo negli occhi – davvero, senza voltarci dall’altra parte – continueremo a meritare lo specchio che ci sbatte in faccia.
*Documentarista




