L’intesa mira a regolare l’erogazione e il rimborso delle prestazioni sanitarie fornite a cittadini che si curano fuori dalla propria regione di residenza. Eppure non mancano le contraddizioni né si tiene conto della cosiddetta mobilità apparente
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L’accordo bilaterale tra la Regione Calabria e la Regione Emilia-Romagna, volto a regolare i flussi della mobilità sanitaria, sembra rivelarsi un boomerang. Prima ancora di analizzarne il contenuto, occorre soffermarsi sul suo movente politico. Esso giunge, infatti, a margine delle dichiarazioni del presidente emiliano De Pascale, secondo cui il sistema sanitario dell’Emilia-Romagna «non riesce più a curare i pazienti che provengono da fuori regione». Lo stesso presidente precisa che il problema non riguarda le risorse finanziarie — che anzi rappresentano un’entrata — bensì la tenuta del modello organizzativo.
Cerchiamo di comprendere meglio la portata dell’accordo bilaterale in via di stipula. L’intesa mira a regolare la mobilità sanitaria interregionale, ossia l’erogazione e il rimborso delle prestazioni sanitarie fornite a cittadini che si curano fuori dalla propria regione di residenza. Il testo stabilisce tetti di spesa annuali per entrambe le Regioni, tariffe di riferimento nazionali e meccanismi di controllo e verifica dell’appropriatezza delle prestazioni. L’obiettivo dichiarato si inserisce nella logica della “finanziarizzazione” del diritto alla salute: garantire un uso efficiente delle risorse, evitare fenomeni distorsivi e migliorare l’autosufficienza dei sistemi sanitari regionali. In particolare, l’accordo intende contenere la mobilità passiva della Calabria verso l’Emilia-Romagna, mantenendo al contempo la qualità e la sostenibilità delle prestazioni erogate.
Tra le righe, vi si legge un evidente paradosso: l’accordo si colloca nell’ambito della legge 207/2024, che obbliga le regioni con forti squilibri di mobilità (come la Calabria) a stipulare intese con altre regioni per governare e ridurre la mobilità “evitabile”. Come può un accordo di tale portata contribuire a ridurla, se impegna circa 21,5 milioni di euro del bilancio regionale calabrese, cristallizzando di fatto il flusso del 2023 — pari a 21,13 milioni, contro una media inferiore ai 18 milioni nel quinquennio precedente? In che modo, dunque, si può pensare di far funzionare meglio il Servizio Sanitario Regionale calabrese se le risorse continuano a essere formalmente destinate altrove? Una contraddizione in termini.
Inoltre, nel testo non si fa mai menzione alla cosiddetta mobilità apparente: quella relativa alle prestazioni effettuate nella regione di domicilio del paziente, quando questa non coincide con la regione di residenza. Al momento non è chiaro l’impatto di questo fenomeno, poiché la rilevazione è effettuata dal Ministero della Salute, che classifica le prestazioni confrontando la regione di residenza con quella di domicilio registrata nel sistema informativo sanitario. Ma, in una regione come la Calabria, interessata da una diaspora sempre più consistente, quante prestazioni sfuggono realmente a questa classificazione?
Anche sul piano dell’etica e della solidarietà tra regioni, l’accordo non sembra volto a ridurre le disuguaglianze, bensì a consolidarle. Non sono previsti meccanismi compensativi a favore della regione “svantaggiata”, né forme di supporto tecnico-finanziario, né iniziative di cooperazione come gemellaggi ospedalieri o trasferimenti di competenze, nonostante si riconosca nelle premesse la grave inadeguatezza del sistema calabrese. Si parla di tetti di spesa, ma non di pazienti. E con la formalizzazione di questi tetti, cosa cambierà concretamente? Le strutture emiliano-romagnole potranno forse ritardare le prestazioni una volta esauriti i limiti fissati? Avendo un numero limitato di prestazioni erogabili, si opererà secondo la regola del “first arrived, first served”, chiudendo le agende e rinviando al nuovo anno i pazienti calabresi eccedenti il tetto?
Appare chiaro che anche questo accordo è un vessillo del fatto che, in sanità, ci si limiti a garantire un livello minimo — e non sempre decoroso — di servizi, giusto per mantenere l’illusione che il sistema pubblico funzioni ancora, lasciando tutto il resto al mercato. Alla fine, si continua a discutere solo di risorse finanziarie e mai realmente di salute. Non è raro che chi dice di battersi per la sanità pubblica riduca la propria azione a una richiesta di più fondi, come se immettere denaro in un sistema non funzionante potesse risolverne le criticità. Poi si scopre che le risorse ci sono e non si spendono, si spendono male, oppure si spendono per accontentare i soliti interessi speculativi. Senza un ripensamento radicale del modello sanitario, più soldi significheranno soltanto una cosa: finanziare meglio l’esistente, mantenendo intatte le posizioni di potere di rendita, nonché rifinanziando, in modo più efficiente, i capitali privati che ormai pervadono il settore.
Tali dinamiche dicono molto su come il regionalismo sanitario abbia progressivamente sgretolato ciò che restava del Servizio Sanitario Nazionale, universale e gratuito. Si è scelto un sistema che pone le Regioni in competizione tra loro, proprio come nel mercato “libero”, dove chi parte da una posizione di vantaggio riesce a rafforzarla sempre di più. Quante decisioni si assumono basandosi sul parametro della spesa storica delle Regioni? Da anni si parla di forbici che si allargano in ogni ambito economico e sociale, eppure non si ha mai il coraggio di mettere in discussione i modelli economici prêt-à-porter, fondati su assunti dogmatici e imperativi. Dopo quindici anni di Piano di Rientro, ne sappiamo qualcosa; eppure, nessuno sembra voler contestare apertamente l’efficacia di questa misura di lacrime e sangue (per i cittadini), né in Calabria, né altrove.
*Specialista in sanità pubblica e participativa


