VIDEO | La contestazione al ministro degli Esteri durante un evento romano mette in luce le contraddizioni di un Paese che celebra i giovani solo quando non disturbano. Il diritto al dissenso, fondamentale in democrazia, viene ancora troppo spesso trattato come un problema di ordine pubblico
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È successo ieri a Roma, durante un evento pensato per valorizzare i giovani che si impegnano per cambiare la politica. Una manifestazione che avrebbe dovuto dare spazio alle nuove generazioni, alle loro idee e al loro desiderio di incidere sul presente. Ma proprio in quell’occasione, tra gli ospiti sul palco, era stato invitato anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani. È stato in quel momento che un gruppo di studenti, provenienti da diverse università e sensibilità politiche, ha deciso di farsi sentire. Hanno scelto di contestarlo apertamente, di rivendicare il proprio diritto al dissenso, di dire ad alta voce che non è possibile restare in silenzio di fronte a chi rappresenta un governo accusato di complicità davanti al genocidio in Palestina.
Il messaggio degli studenti era limpido e diretto: se davvero si vuole celebrare la nuova generazione e la sua capacità di portare cambiamento, allora bisogna ascoltarne anche la voce critica. Non si può lodare l’impegno giovanile da un lato e poi ignorare, o peggio reprimere, chi sceglie di denunciare l’ingiustizia. In momenti come questo, quando la storia chiede di scegliere da che parte stare, ogni occasione diventa utile e necessaria per esprimere un punto di vista, anche scomodo. Perché restare in silenzio, in queste circostanze, significa essere complici.
Eppure, la risposta non è stata quella del dialogo. Gli studenti non sono stati accolti né ascoltati, ma allontanati con l’intervento delle forze dell’ordine e addirittura identificati. Una gestione che ha lasciato sgomenti non solo i diretti protagonisti, ma anche molti dei presenti, e che apre interrogativi profondi: che senso ha parlare di democrazia se non si accetta la critica? Che valore ha celebrare i giovani se poi non si concede loro lo spazio per esercitare il dissenso?
La contestazione non è stata violenta, non è stata eversiva. È stata un atto di espressione civile, politico, pienamente legittimo. Un gesto che in qualunque democrazia dovrebbe trovare riconoscimento come parte del confronto pubblico. Ma la reazione delle istituzioni ha mostrato, ancora una volta, quanto fragile sia in Italia il diritto alla contestazione, spesso riconosciuto solo in astratto e non nella pratica quotidiana. Si tratta di un paradosso che mette a nudo le contraddizioni di chi, mentre parla di giovani e futuro, finisce per ridurli al silenzio quando chiedono giustizia.
Il contesto internazionale rende tutto ancora più grave. In Medio Oriente il conflitto continua a mietere vittime innocenti, e in tutta Europa la società civile si mobilita per la pace e per la difesa dei diritti fondamentali. In questo scenario, la vicenda di Roma dimostra quanto sia urgente difendere non soltanto la libertà di parola, ma anche la legittimità stessa del dissenso come strumento di democrazia. Perché senza la possibilità di contestare non esiste vera partecipazione, e senza il coraggio di ascoltare le voci critiche ogni celebrazione dei giovani resta una facciata priva di sostanza.
La domanda allora è inevitabile: che cosa significa davvero dare spazio ai giovani? Significa accettare che abbiano opinioni autonome, che prendano posizione, che portino scomode verità nello spazio pubblico. Significa riconoscere che la politica non è solo consenso, ma anche conflitto, confronto, dialettica. E che proprio in questo consiste la vitalità democratica. Se invece il dissenso viene ridotto a problema di ordine pubblico, allora a essere in crisi non sono gli studenti, ma le istituzioni stesse. E l’Italia non può permettersi di ignorarlo.