Il ddl sul consenso, ovvero: senza un sì esplicito e netto, ogni atto sessuale è violenza, si è arenato in commissione al Senato. Improvvisamente, proprio il 25 novembre. Non è stato un incidente tecnico, non per un imprevisto, ma una deliberata scelta politica: la maggioranza ha chiesto tempo, audizioni supplementari, “miglioramenti”al testo. Una frenata che arriva dopo un voto unanime alla Camera e una celebrazione bipartisan che aveva fatto parlare di svolta culturale.

Quanto accaduto è uno choc. Non solo per l’opposizione, che ha abbandonato la seduta tra accuse di “tradimento”, ma per chi vedeva in questa legge la possibilità di allineare l’Italia agli altri paesi europei e di superare finalmente ambiguità e zone grigie che da anni rendono i processi difficili e le sentenze controverse.

Il voto finale del ddl era previsto proprio il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne. E invece proprio in questo giorno è arrivato lo stop, creando un cortocircuito politico difficile da spiegare all’opinione pubblica.

Giulia Bongiorno parla di un testo “da perfezionare”, altri di rischio di “indeterminatezza giuridica”, altri sussurrano preoccupazioni sulle conseguenze penali e sul pericolo di “automatismi”. Ma dietro le formule tecniche si intravede un più profondo imbarazzo politico: il timore nel centrodestra che la nuova definizione di violenza possa scardinare equilibri culturali non ancora metabolizzati.

In controluce affiora anche un altro sospetto, che circola con insistenza nei corridoi parlamentari: la premier Giorgia Meloni non avrebbe gradito il protagonismo dell’intesa con Elly Schlein, considerata da parte del suo partito una concessione eccessiva. Ma nessuno lo ammetterà mai.

Le opposizioni, dal canto loro, parlano di “retromarcia incomprensibile”, “schiaffo alle donne”, “fuga dalla responsabilità”. La sensazione diffusa è che il ddl sul consenso sia diventato, all’improvviso, un campo politico minato per la maggioranza, da evitare, non un fiore all’occhiello da rivendicare.

Eppure i numeri raccontano un’urgenza che nessuna pausa tecnica può cancellare: denunce in aumento, casi di violenza in crescita, tribunali in difficoltà. La promessa era colmare questo vuoto, mettere al centro la volontà della persona, superare la logica del “resistere fino allo stremo” per provare la violenza.

Ora cosa succederà? Se il testo verrà davvero ridiscusso, i tempi si allungheranno oltre ogni previsione: audizioni, modifiche, nuove mediazioni tra partiti: un percorso che rischia di far evaporare lo spirito originario di una norma pensata come rivoluzionaria.

Se invece la maggioranza sceglierà di riportarlo in Aula senza modifiche, sarà evidente che lo stop di questi giorni è stato un segnale di difficoltà interna più che di sostanza legislativa.

In entrambi i casi, resta la sensazione di un’occasione mancata. In un Paese che ogni anno piange 120-130 donne uccise dai loro partner o ex, vedere un Parlamento titubante proprio su una norma che avrebbe chiarito l’essenziale – senza consenso è violenza – fa male. Colpisce. Lascia attoniti.

Il punto non è il gioco delle parti, né il profilo dei leader, né la dialettica maggioranza-opposizione.

Il punto è che, in un momento storico in cui la società chiede chiarezza, protezione e giustizia, il parlamento ha scelto la strada del rinvio.

Una decisione che pesa. E che, comunque vada, lascia una domanda aperta: per quanto ancora le donne dovranno aspettare?