Un monologo straziante che racconta la spirale di violenza domestica di una donna: il silenzio imposto dalla paura, le umiliazioni, le botte coperte da bugie, la colpa interiorizzata. Denuncia la società che non protegge, che giudica e isola le vittime. Morta per mano del marito, invita a riconoscere il femminicidio e a difendere i diritti delle donne come dovere collettivo
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Mi diranno che sono pazza, poi con una mano laveranno l'altra mano e con tutt'e due mi spingeranno nel manicomio del giudizio.
Devo restare zitta e dire alla mia amica di farsi i fatti suoi e di lasciarmi in pace per un po'!
Sì sì devo stare zitta e ogni mattina devo anche prendermi il tempo di convincermi che se lo denuncio poi anche lui mi denuncia e proverà che non sono stata una buona madre, perché una notte, per sbaglio, a mia figlia, con la febbre alta da giorni, le stavo per mettere la tachipirina nel buco sbagliato. E mi convincerà di avere tutto da perdere se lo denuncio non pensando invece che se lo denuncio l'unica cosa che potrò perdere sarà finalmente la paura di essere ammazzata.
“No, no, niente… è solo un po' di raffreddore a mamma, vedrai che mi passa subito! No no, non sto piangendo... Quale segno? No no, nulla mi devo essere grattata forte, sai che ho la pelle delicata, ora passa, non ti preoccupare, ora scompare…”
Come no! Il segno dell’umiliazione sarebbe scomparso in poche ore, che erano sempre le stesse ore, quelle del buio, le ore di quando lui rientrava a casa e sbatteva la porta così forte da far cadere l'intonaco! E la bambina per la paura diventava grigia, diventava come le bambole di pezza nascoste nell'armadio. E io diventavo come una di quelle donne che rischiano di finire in prima serata su Raiuno, nel telegiornale delle 20:00 come l'ennesima vittima di femminicidio! A furia di sentirla ‘sta parola è diventata una di famiglia. Prima si chiamava malocchio, e moriva una donna, poi si chiamava delitto d'onore, e moriva una donna, poi si chiamava raptus, e moriva una donna. Poi certo si chiama pure omicidio, ma di omicidio può morire anche un uomo, oltre che una donna, chiamiamolo meglio femminicidio, così non ci confondiamo. Femminicidio. Una parola tutta per noi.
Però non è il mio caso eh, no no, mio marito è violento ma non mi ucciderebbe mai. Almeno spero.
Quante volte mi ha giurato che non mi avrebbe più alzato un dito! E quante volte mi ha detto che si sarebbe messo da parte per il bene di nostra figlia! Lo dicono, certo. Lo dicono sempre, lo dicono tutti, ma non cambiano. È la loro natura! A cambiare siamo solo noi. Iniziamo a non guardarci più allo specchio, a non lavarci più, a mangiare nella speranza che il cuore scoppi, a imbruttire, a scomparire nella nostra stessa carne, a essere solo madri, nient'altro che madri, niente che ci possa restituire la dignità con cui siamo nate. Che poi la dignità manco mi ricordo più a che serve.
A che serve la dignità? Eh? Lui per esempio non l'ha mai avuta. E siccome non l'ha mai avuta non può nemmeno averla mai cercata. E non può mai nemmeno averla temuta, la dignità.
Un uomo con dignità fa paura agli uomini come il mio. Perché, l’uomo con dignità sa di avere un proprio valore morale che si traduce in un comportamento e in un contegno adeguati. Così dice il vocabolario! Ma mio marito non ha mai usato un vocabolario, gli bastava il suo:
“Statti zitta merda, fallita, mula” diceva dopo avermi presa a calci nella pancia, “e una mula non è niente: né femmina e né puttana! Le puttane almeno sanno di qualcosa… tu invece di che sai? Te lo dico io: di fuffa. Di questo sai, di fuffa!” E la saliva - impastata col fumo - gli colava da sopra ai denti per quanto si eccitava a dirmi che gli facevo schifo.
Avevo vent’anni, da sei mesi ero diventata madre. Ricordo esattamente che mi mancava il respiro ogni volta che si avvicinava a me e che la sua puzza di sudore e di nervi si spingeva sui miei reni. Avevo paura di quegli occhi che mi guardavano indemoniati, perché non è delle botte che si ha paura, le botte fanno solo male, provocano solo dolore. Ciò che fa davvero paura è lo sguardo della bestia l’attimo prima del pugno. L’attimo in cui non sai se dopo sarà solo dolore o morte. Anche se in fondo sempre un po’ morte è.
(Si guarda intorno) Ho il referto dell'ospedale se non ci credete! Se pensate che sono pazza, andate a controllare… noi donne pazze abbiamo tutte nascosto in un cassetto un referto del pronto soccorso che dice che siamo cadute dalle scale.
“Mannaggia, non avrei mai dovuto picchiarti, io sono una persona perbene, non è che mi diverto a picchiare le donne. Lo vedi cosa mi hai fatto fare? Vedi come mi porti all'esasperazione?”
Questo mi diceva – protettivo - mentre la dottoressa scriveva: “La signora dichiara di essere caduta dalle scale” e mentre scriveva mi guardava con quegli occhi che avevano capito e mi chiedevano di parlare, di dirla tutta e bene la verità, che lei mi avrebbe accolta. Ma quale verità!? Quale verità!? È sempre stata sopravvalutata la verità! Io ne ero certa: dalle botte bisognava proteggersi in quel modo: non con la denuncia, con la sopportazione.
Così dai venti ai trent'anni, ogni quindici giorni cadevo dalle scale e lui continuava indisturbato a fare del mio corpo il suo pisciatoio e della sua vita la più fortunata e rispettabile delle carriere.
Perché lui è un uomo rispettabile, e da uomo rispettabile non mi menava da ubriaco, no, era astemio! Mi prendeva a calci da sobrio, da convinto, perché me lo meritavo. Me lo meritavo perché mi lamentavo troppo, perché gli dicevo che i debiti con equitalia ci avrebbero portati sul lastrico, perché ci avrebbero sfrattati, perché ero stanca di dipendere da lui economicamente, perché sporcava la cucina per dispetto, perché fumava in casa e spegneva le cicche sul pavimento, oltre che sulle mie braccia, perché gli dicevo che faceva troppo lo scemo con le sue colleghe. Sì per tutto questo me lo meritavo! Perché lui si era laureato e io no, perché lui mi manteneva e io no, perché lui sapeva come fare e io no . Me lo meritavo perché sopportavo in silenzio il suo malumore, anzi no: il suo “malamore”, è più giusto. Me lo meritavo perché così secondo lui mia figlia mi avrebbe amata per sempre, per pietà!
E noi... invece di fare davvero il bene dei figli, facciamo il bene del buon nome del padre, dimenticando che un padre dà l'esempio, e con certi esempi che si perpetuano come angoscianti litanie i figli non si amano, si condannano. E si condanna la società che avrà in futuro a che fare con loro. È tutto un sistema concatenato. Ma io non lo sapevo.
E non sapevo che quel raffreddore si sarebbe fatto callo tra le mie costole e casa nel mio sangue per almeno vent'anni.
“Io non ti ho fatto niente”, gli ho detto mentre morivo.
“Io non ti ho fatto niente”, e con un coltello mi tagliava la gola, accasciato sopra le mie spalle come fanno gli infami, nel portone di casa mia, davanti a mia figlia.
“Io non ti ho fatto niente…”
E sono morta così anche io, come Marianna Lucia Elvira Imma Letizia Emilia Maria e tutti i nomi di donna che conoscete. Siamo state amazzoni ferite alle spalle. I nostri uomini nemmeno negli occhi ci hanno voluto guardare.
E sapete cosa? io per loro mi vergogno. E mi vergogno anche per certe donne.
Ma NON per quelle che per paura non denunciano. Anche io per paura non ho denunciato. La paura non è una scelta, la paura è uno strumento in mano al male per soggiogare.
-Io mi vergogno per quelle donne che in modo lucido, non denunciano perché "i panni sporchi si lavano in famiglia". Allora: un uomo violento non è né famiglia né un panno sporco, ché il panno sporco se lo lavi bene esce, magari restano le macchie, ma lo sporco alla fine se ne va. Un uomo sporco dentro non lo pulisci con niente. Niente coscienza, niente dignità, niente vergogna, dunque niente pulizia. E poi non c'è famiglia dove la donna viene picchiata “Perché mi hai provocato", "Perché sono nervoso", "Perché oggi non è giornata", "Perché vai educata"… a cosa vado educata? e soprattutto da chi?
-Io mi vergogno per chi biasima la donna che denuncia perché “se lo denunci sei una poveraccia, una provinciale irresponsabile!". Che poi sono le stesse persone che alla domanda "Scusa, ma se fosse successo a tua figlia?" rispondono "Mai sia, lo ucciderei". Bravi, bravi tutti voi che per vostra figlia uccidereste, e per le altre donne provate biasimo. Ma perché? Perché non si dovrebbe denunciare? Perché siete degli ipocriti, ecco perché.
-Io mi vergogno per chi giudica male le donne che denunciano e per quel coraggio che hanno pure di parlare!
-Io mi vergogno per ogni giudizio moralista peggiore di qualsiasi vessazione psicologica che insinua un mortale senso di colpa, come se denunciare fosse davvero un errore.
-Io mi vergogno per chi alleva figli a pane e bugie credendoli stupidi. I figli non sono stupidi. E soprattutto I figli di oggi sono i mariti di domani, quelli che sposeranno anche vostra figlia. La vostra piccola bambina.
-Io mi vergogno per chi chiama pazze le donne che escono dalla cucina con gli occhi neri pensando che sia il rimmel sbavato dal vapore dei broccoli stufati.
-Mi vergogno per chi conosce di queste violenze e non prende posizioni.
-Mi vergogno per chi invece di fare rete, isola.
-Mi vergogno per chi non accoglie le denunce nei tribunali.
-Mi vergogno per quello Stato che dopo anche una sola denuncia non azzera la voglia di supremazia casalinga di quei poveracci leoni in casa e pecore prone nella società in cui far carriera. Miserabili…
Io mi vergogno per voi. Per voi. Con grande forza. Con grande foga. E con grande determinazione. E sappiate che farei questa lotta anche se tutto questo non fosse successo a me, perché le lotte non si fanno solo per far valere i propri diritti. Non esistono diritti che ci riguardano e altri no. Esistono diritti e basta. Quindi basta chiacchiere. È ora di diventare Uomini. È ora che finalmente impariate che il vostro primo pensiero la mattina quando vi svegliate deve essere che far valere i miei diritti di donna, è un vostro preciso dovere.
*attrice
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