Aprigliano, circa 3000 abitanti, si trova nella Presila cosentina. Il suo territorio è tra i più vasti della Calabria, per gran parte all’interno del Parco Nazionale della Sila. Alessandro Porco è il giovane sindaco al secondo mandato. Con lui affrontiamo il tema dello spopolamento.

Sindaco, c’è un’Italia che sta morendo nel silenzio più assordante. Nel nuovo “Piano strategico per le aree interne”, il Governo parla chiaramente di “spopolamento irreversibile”. Di fatto è l’annuncio dell’abbandono di centinaia di comuni al loro destino.
«È chiaramente una delle tante cantonate di questo governo. Personalmente non condivido nulla della politica che stanno portando avanti. E lo dico da sindaco, in modo concreto: quest’anno il Governo ha tagliato ancora il nostro fondo di solidarietà, altri 23.000 euro. E questi tagli continueranno per i prossimi cinque anni. Vuol dire circa 120.000 euro in meno complessivi. Ma non al sindaco: 120.000 euro in meno ai cittadini, ai servizi, agli asili nido, alla raccolta dei rifiuti. Questo è il punto. È normale, allora, che comuni come il nostro, e in generale tutti quelli del Sud Italia, saranno sempre più marginalizzati».


I comuni andrebbero rilanciati, sostenuti, non lasciati andare. È un’eutanasia di Stato. Che colpirà tantissimi comuni del Sud e della Calabria. Nel silenzio delle Regioni, compresa la nostra.
«È un silenzio complice. Perché se è vero che lo Stato centrale ha voltato le spalle alle aree interne, è altrettanto vero che la Regione Calabria non ha fatto nulla per invertire questa rotta. Sui grandi temi — o meglio, su quelli che fanno più notizia come il Capodanno, i grandi eventi, le operazioni di facciata — la Regione si è mossa, ha preso decisioni, si è mostrata determinata. Ma la sostanza sono i comuni. La vita quotidiana dei cittadini si regge su strade comunali, scuole comunali, servizi sociali comunali. E su questo versante siamo stati lasciati soli».

Ma la Regione dice di fare molto per il territorio.
«Veramente in alcuni casi la Regione ha perfino penalizzato i comuni, arrivando a revocare finanziamenti per potenziali morosità risalenti ad anni e anni fa. Un accanimento burocratico che colpisce chi ha già risorse minime e personale insufficiente. E così i comuni più fragili, quelli dell’interno e del Sud, vengono doppiamente abbandonati: prima dallo Stato, poi dalla Regione».

Voi come state vivendo questo momento? Com’è la situazione di Aprigliano?
«Ad Aprigliano stiamo cercando di fare il massimo, pur con risorse limitate. Proprio in questi giorni stiamo destinando ulteriori 32.000 euro a un bando per incentivare le attività economiche locali. È un modo concreto per provare a trattenere le energie migliori e creare opportunità sul territorio».

E sullo spopolamento?
«Siamo risultati vincitori di un bando nazionale proprio per il contrasto allo spopolamento: abbiamo ottenuto quasi 100.000 euro da destinare a chi sceglierà di stabilire qui la propria residenza. Parallelamente, continuiamo a garantire i servizi essenziali — pulizia, decoro urbano, manutenzione — perché crediamo che un paese curato e vivibile sia il primo segnale di attenzione verso i cittadini».

La denatalità è un cappio al collo.
«Siamo consapevoli che la denatalità è una tendenza strutturale, specie nel Mezzogiorno, e che non si contrasta con una sola misura. Ma non molliamo. Resistere significa amministrare ogni giorno con serietà, e soprattutto credere ancora nel futuro di questi luoghi».

Lo smart working, la gestione dell’immigrazione legale… ci potrebbero essere soluzioni, anche importanti. Ma il tema dello spopolamento non viene nemmeno affrontato, mai messo all’ordine del giorno.
«Il vero problema è proprio questo: non c’è un’agenda politica seria sullo spopolamento. Se ne parla solo in modo episodico, spesso per fare dichiarazioni d’effetto, ma manca totalmente una visione. È come se il tema fosse scomodo, troppo complesso, e quindi sistematicamente rimosso».

Eppure, gli strumenti ci sarebbero.
«Lo smart working non è solo un’opportunità per chi lavora, ma può diventare un volano per riportare persone nei piccoli comuni. Però servono infrastrutture digitali adeguate, incentivi mirati, e soprattutto una strategia di lungo periodo».

Anche l’immigrazione legale potrebbe essere una risorsa.
«Certamente, soprattutto se gestita con intelligenza e accompagnata da vere politiche di integrazione. Ma finché si continua a parlarne solo in termini di emergenza, non si va da nessuna parte. Il risultato è che i borghi continuano a svuotarsi mentre nessuno mette il contrasto allo spopolamento al centro delle politiche pubbliche. E così restiamo fermi, a rincorrere l’emergenza, senza mai affrontare davvero il problema».


In realtà, molti sospettano che sia un piano predefinito da molti anni. E infatti lo Stato si è ritirato dai paesi, dai borghi piccoli e grandi, chiudendo scuole, sopprimendo o accorpando uffici pubblici, di fatto creando un isolamento di Stato di questi comuni.
«Non è un sospetto: è una realtà sotto gli occhi di tutti. Da anni assistiamo a un progressivo disimpegno dello Stato dai territori interni. Prima sono state chiuse le scuole, poi accorpati uffici postali, presìdi sanitari, tribunali, stazioni ferroviarie. È stato un ritiro lento ma sistematico, che ha creato isolamento e disgregazione sociale».

E non parliamo solo di servizi, ma di identità.
«Quando un paese perde la scuola o l’ufficio postale, perde anche il senso di appartenenza e di dignità istituzionale. E questo è devastante, soprattutto per i giovani. Senza una presenza dello Stato, si indebolisce anche la fiducia dei cittadini verso le istituzioni. È come se fosse stata perseguita, in modo silenzioso, una strategia di svuotamento. Ma sono proprio questi luoghi che, se valorizzati, potrebbero essere un pezzo importante del futuro del Paese».

Intanto i sindaci sono disperati perché da anni sono rimasti senza risorse e senza personale. Come si può amministrare così?
«È così. I sindaci e le amministrazioni locali sono in difficoltà evidente. Ma non si arrendono. Perché nei piccoli comuni, spesso, resiste l’ultimo baluardo dello Stato. Gli amministratori locali lavorano ogni giorno senza la giusta attenzione, con sacrificio e senso di responsabilità, tenendo in piedi le loro comunità con orgoglio, identità e dignità. Lo fanno lontano dai riflettori, quasi in silenzio, come se fosse semplicemente un dovere».

Una battaglia lunga e difficile.
«La verità è che facciamo la guerra con i fucili scarichi. Risorse minime, personale ridotto, e responsabilità enormi. Eppure, se oggi tanti territori del Sud non sono ancora del tutto marginalizzati, lo si deve proprio alla tenacia e alla competenza di tanti amministratori locali. La Calabria è piena di persone capaci che lavorano per il bene delle loro comunità. Se non fosse per loro, il Mezzogiorno sarebbe ancora più indietro».

E poi c’è l’accorpamento dei comuni, le unioni e le fusioni. Che possono funzionare fino a un certo punto, anzi sono poche quelle che veramente funzionano, ma comunque tolgono l’identità, la storia e la cultura secolari di tanti paesi.
«Le fusioni sono, in molti casi, un processo virtuoso e direi quasi inevitabile. Ma c’è un punto che considero fondamentale: le fusioni devono partire dal basso, non dall’alto. Una fusione ha senso quando nasce da una collaborazione già in atto tra comuni — condivisione di servizi, progetti comuni, programmazione integrata. In quel caso può rafforzare l’identità e migliorare l’efficienza».

Ma spesso viene imposta dall’alto.
«Questo solo per ragioni contabili o per ottenere benefici temporanei, ma rischia di creare più problemi che soluzioni. Io non sono contrario alle fusioni, anzi. Ma devono essere il frutto di un percorso politico fatto di idee e di uomini, non di scelte calate dall’alto che ignorano il tessuto sociale e culturale dei territori».