Tra i corridoi di Palazzo Chigi si gioca una delle partite più delicate degli ultimi anni: il futuro della spesa militare italiana nell’ambito Nato. Al centro dell’incontro tra Giorgia Meloni e Mark Rutte – nuovo segretario generale dell’Alleanza Atlantica – non c’è solo la difesa in senso stretto, ma anche un’opera simbolo come il ponte sullo Stretto di Messina. Non si tratta di un vezzo ideologico né di un escamotage contabile: il governo italiano ha infatti chiesto che il collegamento stabile tra Calabria e Sicilia venga classificato come infrastruttura “strategica” utile alla mobilità militare, e dunque computabile come spesa Nato.

Un passaggio chiave in vista del vertice dell’Aja (24-26 giugno), dove gli Stati Uniti di Donald Trump chiederanno agli alleati di aumentare drasticamente il budget per la difesa. E per evitare che la manovra si traduca in una stangata da decine di miliardi, Roma punta ad allargare il perimetro di ciò che può essere incluso sotto l’etichetta “sicurezza”.

Il diktat americano: verso il 5% del PIL in spese militari

A L’Aja, Washington proporrà un innalzamento degli obiettivi di spesa militare dal 2% al 3,5% del PIL, con l’aggiunta di un ulteriore 1,5% per investimenti collaterali. Un totale del 5% del PIL che rappresenterebbe, per molti Paesi, una vera rivoluzione contabile. Secondo le stime circolate in ambienti diplomatici e riportate da note riservate del governo italiano, per Roma questo significherebbe una spesa annuale tra i 79 e i 113 miliardi di euro – a fronte degli attuali 45 miliardi.

Un aumento fino a 68 miliardi in più l’anno, pari a più di un’intera legge di bilancio. Numeri che rendono l’aggiunta del ponte sullo Stretto tutt’altro che simbolica: l’opera, dal costo stimato di circa 14 miliardi, rappresenterebbe un tassello utile a contenere il peso economico dell’adeguamento agli standard Nato.

Spese militari o spese strategiche?

Non è la prima volta che l’Italia prova ad allargare il concetto di “spesa per la difesa”. Già oggi vengono incluse voci come i fondi per l’Arma dei Carabinieri, la Guardia di Finanza, perfino i servizi meteorologici. Ma nelle carte preparatorie del governo emergono anche altre aree da valorizzare: il contrasto alle minacce ibride, la protezione delle infrastrutture critiche (come i cavi sottomarini e i satelliti), la sicurezza dei confini, la mobilità militare e gli aiuti versati all’Ucraina.

In questo mosaico rientra perfettamente il ponte sullo Stretto, visto dal governo non solo come simbolo dell’unità nazionale, ma come asse strategico per la logistica civile e militare nel Mediterraneo. Se Bruxelles e la Nato accettassero questa visione, l’opera otterrebbe una doppia legittimazione: geopolitica e finanziaria.

Tajani punta sulla clausola Ue e sugli eurobond

Accanto alla strategia di “riallineamento contabile”, il governo spinge anche su due strumenti politici: la clausola europea che permetterebbe di escludere le spese militari dal calcolo del deficit, e l’emissione di eurobond per finanziare gli investimenti comuni nella difesa.

È questa la linea portata avanti con forza da Antonio Tajani, ministro degli Esteri e leader di Forza Italia, che ne ha discusso con Emmanuel Macron e oggi si è confrontato anche con Johann Wadephul, rappresentante della Germania al vertice Weimar Plus. Ma su entrambi i fronti restano ostacoli politici significativi: Berlino continua a frenare su qualsiasi forma di mutualizzazione del debito, mentre la clausola sul deficit è oggetto di una complicata trattativa tra Commissione, Consiglio e Parlamento europeo.

La corsa contro il tempo: 2035 o 2032?

Un altro punto critico è quello delle scadenze. Meloni vorrebbe spalmare il nuovo sforzo finanziario su dieci anni, fino al 2035. Ma a Bruxelles si fa strada l’idea di anticipare la deadline al 2032, tre anni prima. Un’accelerazione che rischia di diventare insostenibile per un Paese già alle prese con deficit elevato, stagnazione economica e una difficile attuazione del Pnrr.

Il rischio politico per il governo italiano è elevato: aderire senza riserve alle richieste Usa può aprire uno squilibrio nei conti pubblici, ma opporsi apertamente potrebbe segnare un isolamento in seno all’Alleanza Atlantica. Da qui l’importanza strategica dell’incontro con Rutte, in cui Meloni ha cercato di misurare i margini reali di flessibilità.

Difesa, economia e consenso: un nodo politico

La questione Nato non è solo una partita tra tecnici o diplomatici. È una sfida politica, che tocca la tenuta del consenso interno. Da una parte l’Italia si trova a dover riaffermare il proprio ruolo in una Nato sempre più impegnata su scala globale; dall’altra rischia di pagare un prezzo elevatissimo, con ricadute su spesa sociale, investimenti e politiche economiche.

Il ponte sullo Stretto diventa così un simbolo perfetto della doppia logica che guida oggi la strategia di Meloni: unire la retorica del primato nazionale con la necessità di rispondere agli imperativi dell’alleanza occidentale. Non sarà facile tenere insieme queste due anime, soprattutto in un quadro europeo segnato da incertezze politiche e vincoli sempre più stringenti.