Un futuro insegnante in un ateneo veneto ha più volte offeso una collega. Scoppia il caso, i vertici minimizzano ma una partecipante scrive a LaC per denunciare il rischio di legittimare il razzismo anche tra educatori
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«La solita terrona», detto quasi con noncuranza durante una lezione di un corso per l’abilitazione all'insegnamento in una università statale del Veneto, davanti ad oltre 270 presenti. È un racconto che pare preso dagli anni 50 eppure le incrostazioni di un razzismo strisciante faticano a scomparire. Anche tra chi si sta formando per diventare insegnante — e ha rivolto a una collega quell’epiteto, «ripetuto più volte con disprezzo e senza apparente consapevolezza della gravità di quanto stesse dicendo».
La testimonianza arriva da una lettrice che chiede l’anonimato. Anche lei ha partecipato al corso in cui la frase è stata pronunciata: «È seguito un momento di silenzio gelido, rotto solo dall’intervento della docente, rendendosi conto che il diretto interessato non disponeva degli strumenti culturali e soprattutto umani per comprendere la gravità delle sue affermazioni, si è scusato con lei».
Non è che la risposta istituzionale sia stata particolarmente dura: «Il fatto è stato segnalato al rettore dell’ateneo, la risposta giunta tramite la coordinatrice del corso è stata che si tratta di un “caso isolato” e dunque non meritevole di ulteriori attenzioni. Ritengo non accettabile che proprio da chi ricopre un ruolo accademico ed educativo arrivi un messaggio simile. Davvero un comportamento razzista, solo perché “isolato”, dovrebbe essere ignorato? Quale messaggio trasmettiamo agli studenti, e soprattutto a chi sarà chiamato a educare le generazioni future? Anche un singolo atto di discriminazione è inammissibile. Anche un solo insulto va condannato. Anche un solo episodio richiede una presa di posizione netta. Altrimenti, per coerenza, dovremmo dire che chi causa un solo incidente stradale non debba risponderne, perché “è un caso isolato”».
Le domande che seguono sono pressanti: «È questa la cultura che vogliamo trasmettere? È questa la soglia di attenzione etica di chi forma gli insegnanti del domani? Ma così non funziona in uno Stato civile. Così non funziona un’università che abbia davvero a cuore la formazione, non solo didattica ma umana. Perché tollerare anche un solo gesto di odio — giustificandolo come eccezione — significa normalizzarlo. E normalizzare l’odio significa alimentarlo».
«In un Paese – è il ragionamento della nostra lettrice – dove troppo spesso si accetta che un italiano del Sud venga ancora oggi trattato come uno “straniero in casa propria”, minimizzare simili episodi è non solo irresponsabile, ma estremamente pericoloso. Le università dovrebbero essere il luogo dove rispetto e inclusione vengano insegnati con l’esempio, non con le parole. L'odio non nasce mai dal nulla. Si insinua nel linguaggio, nei gesti quotidiani, nei silenzi di chi assiste e non reagisce. E se lasciato crescere, può trasformarsi in qualcosa di ben più pericoloso. Come, purtroppo, ci ricorda la Storia anche recente. Uno studente e, soprattutto, un futuro insegnante che si esprime in questi termini non è pronto a vivere in uno Stato civile e ed in particolare ad insegnare. Perché chi insegna non trasmette solo contenuti, ma valori. E tra questi, il rispetto della dignità dell’altro, a prescindere dalla sua origine, dovrebbe essere imprescindibile. Siamo cittadini dello stesso Paese, legati da una storia comune che dovrebbe unirci e non dividerci. L’Italia non può permettersi di essere l’unico Paese dove gli italiani non sono considerati uguali tra loro».
«Chiediamo che l’episodio venga riconsiderato per quello che è: un fatto grave, non solo per chi lo ha subito, ma per il messaggio devastante che lascia passare se non affrontato con la necessaria fermezza».