Durante la messa a porte chiuse che ha aperto la kermesse di Reggio Calabria, il prete, in passato sfiorato (e poi assolto) da da inchieste e intercettazioni imbarazzanti, ha trasformato l’omelia in un messaggio politico che ha gelato la platea
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Se il Vangelo invitava a rendere a Cesare quel che è di Cesare, don Nuccio Cannizzaro sembra avere capito solo una cosa: che la politica, specie quella amica, va difesa anche a costo di calpestare il principio di legalità. A Reggio Calabria, davanti a una platea di big di Forza Italia, il sacerdote ha trasformato l’omelia della messa di apertura degli Stati generali del Sud del partito in una sorta di manifesto politico. Un manifesto che, più che odore di incenso, lasciava nell’aria quello della polvere di tribunale.
«Basta con la cultura della legalità che tanti danni ha fatto», ha tuonato in sintesi dal pulpito, secondo il racconto dei presenti. Un’affermazione che, in qualunque altra diocesi italiana, avrebbe fatto sobbalzare persino i santi delle navate. In Calabria, terra di ’ndrangheta, ha fatto sudare freddo le prime file della kermesse: lì, a pochi passi dall’altare, c’erano Antonio Tajani e lo stato maggiore forzista, improvvisamente ammutoliti sulle loro poltroncine.
Don Nuccio non si è fermato lì: «Bisogna ripristinare l’immunità parlamentare, il potere scelto con il voto dagli italiani deve avere la supremazia, solo così si può far volare in alto il Paese”. E persino un parallelo tra Gesù e chi infrange le regole: «Gesù – ha spiegato – è stato il primo ad andare contro la rigida legge ebraica». Un’interpretazione evangelica che probabilmente non troverete nelle omelie di Papa Leone.
Per chi conosce la storia del parroco, però, la sorpresa è relativa. Don Nuccio, anni fa, è stato indagato per una falsa testimonianza a favore di un presunto boss locale (anche lui assolto nel processo). L’inchiesta si concluse con un’assoluzione, ma le intercettazioni depositate agli atti tracciavano un ritratto del tutto particolare: un sacerdote che spiegava ai carabinieri, senza sapere di essere ascoltato, che «con un mafioso bisogna avere un linguaggio mafioso». E che ai preti «non si può imporre uno stile pastorale-poliziesco».
Negli anni Duemila, la sua voce finì in più di una registrazione imbarazzante. Almeno secondo gli inquirenti chiedeva favori all’assessore comunale di turno, si lamentava di una casa di un’anziana troppo vicina alla chiesa – voleva liberarsene per avere il piazzale tutto per sé – e pontificava in macchina frasi degne di un film grottesco: «A noi preti ci dovrebbero autorizzare almeno una volta nella vita a mettere incinta una donna, per vedere che effetto fa». La sua Mercedes, piena di cimici, diventava un confessionale rovesciato, dove le parole non salivano al cielo ma finivano nei faldoni della Procura.
Quell’inchiesta lunga e tormentata - è giusto sottolinearlo - si è chiusa con un’assoluzione. Ma la memoria dei fedeli non ha i tempi della prescrizione. E ascoltare oggi don Nuccio scagliarsi contro la legalità nella terra in cui i boss prosperano sulle zone grigie della politica ha oggi il sapore dell’ennesima provocazione.
Alla kermesse di Forza Italia, la funzione era stata organizzata come un momento intimo, senza telecamere. Una scelta che, col senno di poi, qualcuno in sala avrà vissuto come una grazia. Perché se quelle parole fossero uscite in diretta tv, l’effetto boomerang sarebbe stato devastante.
La Chiesa calabrese, per ora, tace. Eppure, se c’è un passo del Vangelo che don Nuccio sembra aver rimosso, è quello in cui Gesù scaccia i mercanti dal tempio. Perché trasformare l’altare in un pulpito politico, in Calabria, è molto più di un azzardo retorico: è un messaggio pericoloso, che scivola dritto nelle orecchie di chi la legalità non l’ha mai sopportata.