Il musicista, antropologo e docente di filosofia nel suo album-libro intreccia canzoni e un saggio filosofico-antropologico: «La mia infanzia è stata fondamentale nel definire la mia idea di identità e appartenenza»
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«La Transmondanza è un gesto di apertura: uscire dal proprio mondo, attraversare l’orizzonte dell’altro e rinascere insieme, in una rigenerazione collettiva che dà senso al viaggio umano», spiega lo scrittore calabrese Antonio Bevacqua, musicista, antropologo e docente di filosofia.
La sua formazione unisce musica popolare, ricerca antropologica e riflessione filosofica, in un percorso che coniuga esperienza artistica e impegno civile. Fin da bambino entra in contatto con i suonatori tradizionali della Sila Greca, sviluppando una profonda passione per le musiche di tradizione orale. Laureato in Lettere Moderne all’Università della Calabria, partecipa a progetti di ricerca demo-antropologica e collabora alla catalogazione dell’archivio di Otello Profazio.
Docente di Storia e Filosofia nei licei, Bevacqua unisce nella didattica la riflessione filosofica alla memoria culturale e al linguaggio poetico della musica. La sua ricerca più recente ruota intorno al concetto di “transmondanza”, da lui coniato come superamento dei confini identitari e apertura all’incontro tra culture. Da questa idea nasce La Transmondanza, album-libro che intreccia canzoni e saggio filosofico-antropologico.
Antonio, da dove nasce il termine “Transmondanza” e che cosa rappresenta davvero per te?
«Il termine “Transmondanza” nasce da una riflessione personale e poetica sul tema della migrazione e sul bisogno di dare un nuovo senso al movimento delle persone e delle culture. Non è semplicemente un neologismo, ma una visione: un modo di guardare al mondo oltre i confini geografici e mentali. Per me, Transmondanza rappresenta l’idea di andare oltre il proprio mondo, non per abbandonarlo, ma per incontrare altri mondi, altre lingue, altre sensibilità, e tornare arricchiti. È il contrario dello sradicamento: è un passaggio trasformativo, in cui l’identità non si perde ma si rinnova nel dialogo con l’altro. Il termine nasce dall’incontro tra trans (“oltre”) e mondo, evocando un movimento continuo e reciproco tra culture, persone e luoghi. È una parola che racchiude la mia esperienza di musicista, viaggiatore e insegnante: l’idea che ogni incontro può diventare un ponte, ogni partenza un’occasione di rinascita, ogni ritorno una nuova forma di appartenenza. In sintesi, Transmondanza è una filosofia dell’incontro: un invito a vivere la migrazione, la cultura e la conoscenza non come separazione, ma come possibilità di rigenerazione umana e collettiva».
Nel libro c’è un filo fortissimo tra memoria e futuro: quanto la tua infanzia ha inciso sulla tua idea di identità e appartenenza?
«La mia infanzia è stata fondamentale nel definire la mia idea di identità e appartenenza. Sono cresciuto in una Calabria che profumava di mare e di terra, di zagare e di ulivi, in un mondo in cui la memoria non era qualcosa da conservare in un cassetto, ma un modo di vivere. Le storie raccontate davanti al fuoco, la musica della chitarra battente, le processioni, i volti e i gesti delle persone che mi circondavano: tutto questo ha costruito in me un senso profondo di radice e continuità.Nel tempo ho capito che la memoria non è solo ciò che lasciamo dietro di noi, ma ciò che ci spinge in avanti. La mia infanzia mi ha insegnato che appartenere non significa restare fermi, ma portare con sé la propria terra ovunque si vada. Per questo nel libro la memoria e il futuro non si oppongono: si abbracciano. Ogni ricordo diventa una spinta verso nuovi orizzonti, ogni viaggio una forma di ritorno. La mia identità nasce da questa tensione tra radice e movimento, tra ciò che ero e ciò che continuo a diventare».
La musica attraversa ogni pagina, dalla chitarra “Clarissa” ai viaggi in America: che rapporto c’è per te tra suono e memoria?
«Per me il suono è una forma di memoria vivente. Ogni nota, ogni timbro, ogni silenzio custodisce un ricordo, un’emozione, un volto. Quando suono non produco semplicemente musica: riattivo il passato e lo faccio vibrare nel presente. La mia prima chitarra, “Clarissa”, è stata la chiave che mi ha permesso di trasformare i ricordi in suoni. Ogni corda mi riportava all’infanzia, ai rumori della casa, alle voci, ai gesti semplici della vita quotidiana. Da allora, la musica è diventata per me un linguaggio della memoria: uno spazio dove il tempo non scorre in linea retta, ma si intreccia, si richiama, si rinnova. Nei viaggi in America ho ritrovato quelle stesse vibrazioni in altri suoni, in altre culture. La musica ha il potere di unire mondi lontani, di creare ponti tra chi parte e chi resta, tra le radici e l’altrove. In questo senso, il suono è la mia forma di transmondanza: un passaggio continuo tra ciò che siamo stati e ciò che continuiamo a diventare».
Il racconto di tuo nonno Cataldo, emigrato negli Stati Uniti nel 1909, è toccante: in che modo la sua storia ha influenzato la tua visione della migrazione contemporanea?
«La storia di mio nonno Cataldo è stata per me una rivelazione. Il suo viaggio del 1909 verso New York non è solo una vicenda familiare, ma una radice simbolica da cui nasce la mia riflessione sulla migrazione. Cataldo partì con poco, ma portava con sé un mondo intero: la lingua, la dignità del lavoro, la speranza di costruire un futuro migliore. Tornò in Calabria dopo anni, trasformato dall’esperienza, ma senza aver mai reciso il legame con la sua terra. Quella sua traversata mi ha insegnato che la migrazione non è solo spostamento geografico, ma movimento dell’anima. È un atto di coraggio e di fiducia, un attraversamento che cambia chi parte, e anche chi resta. Quando penso alla migrazione contemporanea, vedo la stessa spinta: la ricerca di senso, di possibilità, di incontro. La differenza è che oggi possiamo — e dobbiamo — vivere questo movimento non come perdita, ma come scambio e rigenerazione reciproca. È questo che intendo con Transmondanza: non un’emigrazione che separa, ma un andare e tornare che unisce, trasformando l’esperienza del viaggio in una nuova forma di appartenenza».
In più capitoli emergono figure e luoghi che hanno segnato la tua formazione: piazza Loreto, l’Università della Calabria, gli incontri in America. C’è un momento preciso in cui hai capito che questi frammenti potevano diventare un libro?
«Sì, c’è stato un momento preciso, anche se non immediato. È accaduto quando ho riletto, con uno sguardo nuovo, i luoghi e le persone che avevano accompagnato il mio cammino: la piazza Loreto di Cosenza, con la sua umanità viva e contraddittoria; l’Università della Calabria, dove ho imparato a pensare e a sognare; e poi gli incontri in America, che hanno riaperto in me il filo delle origini e del viaggio. A un certo punto ho capito che quei frammenti, apparentemente lontani, facevano parte dello stesso disegno. Erano stazioni di un unico percorso, tappe di una “transmondanza” personale che univa la memoria del Sud all’apertura verso il mondo. Il libro è nato proprio da questa consapevolezza: che il racconto non era solo mio, ma di tanti. Di chi parte, di chi resta, di chi torna diverso. Scrivere La Transmondanza è stato come ricomporre una mappa dell’anima, unire in un’unica voce luoghi, suoni e incontri che, insieme, raccontano l’essenza stessa del viaggio e dell’appartenenza».
Nella prefazione Luigi Scaglione parla della Transmondanza come “opportunità per il Sud”. Quali politiche o progetti concreti potrebbero tradurre questa idea in realtà?
«Quando Luigi Scaglione parla della Transmondanza come “opportunità per il Sud”, io penso a un Sud che non guarda più alla migrazione come perdita, ma come rete viva di intelligenze e di possibilità. Abbiamo nel mondo migliaia di calabresi — professionisti, artisti, scienziati, artigiani — che, pur vivendo altrove, portano con sé l’amore e la memoria delle proprie origini. La Transmondanza significa ricucire questo filo, renderlo strutturale, continuo, fertile. Immagino un modello in cui ogni comune del Sud mantenga un contatto stabile con i propri conterranei all’estero, non solo in chiave affettiva ma come collaborazione attiva. Se un paese deve elaborare un nuovo piano regolatore, potrebbe chiedere la consulenza di un urbanista calabrese che lavora a Sydney o a San Francisco; se si vuole rilanciare l’agricoltura o la ristorazione, si possono coinvolgere chef, biologi o artigiani emigrati che portano esperienze maturate in contesti internazionali. Tutti questi talenti, pur vivendo lontano, possono contribuire a innovare e rigenerare le terre d’origine. Anche i giovani studenti possono diventare protagonisti di questo processo: oggi basta una videochiamata per entrare in contatto con parenti o amici che vivono all’estero, imparare le lingue, condividere conoscenze e costruire progetti comuni. Ogni paese della Calabria, e del Sud in generale, dovrebbe avere una sorta di “anagrafe della diaspora”, un registro vivo di persone e competenze con cui dialogare, creare reti, immaginare futuro. La Transmondanza è questo: una politica del legame, un modo nuovo di pensare alla migrazione come circolazione di idee, saperi e affetti. Il Sud può rinascere se riconosce che la sua forza non è solo nelle radici, ma anche nei rami che si sono estesi nel mondo e che oggi vogliono e possono tornare a dare frutti».
Oggi molti giovani calabresi vivono una nuova forma di emigrazione, digitale e globale: credi che anche questa sia una “transmondanza”?
«Sì, credo che anche questa nuova emigrazione digitale sia una forma di Transmondanza, ma con una sfumatura diversa: è una migrazione senza valigia, dove il viaggio avviene attraverso lo schermo, tra reti invisibili e connessioni globali. Molti giovani calabresi oggi vivono «altrove» restando fisicamente qui, oppure vivono «qui» anche quando si trovano lontano. È una condizione nuova, fatta di presenza e assenza simultanee, di radici che si estendono nel mondo digitale. In questa nuova dimensione, la Transmondanza diventa un modo di abitare il mondo contemporaneo: significa saper attraversare spazi virtuali senza perdere il contatto con la propria voce, la propria lingua, la propria terra. È la capacità di portare l’identità dentro la connessione, di dare un’anima alla tecnologia, di trasformare la rete in un nuovo orizzonte d’incontro. La vera sfida è che questa emigrazione non si trasformi in solitudine o dispersione, ma diventi comunità diffusa: un laboratorio in cui la Calabria e il Sud intero possano continuare a raccontarsi, a innovarsi, a respirare nel mondo. In fondo, anche nel digitale, restiamo esseri migranti: anime in cammino che cercano di riconoscersi nell’eco delle proprie origini».
Se dovessi riassumere in una sola frase il messaggio che vorresti lasciare ai lettori, quale sarebbe?
«La Transmondanza è un gesto di apertura: uscire dal proprio mondo, attraversare l’orizzonte dell’altro e rinascere insieme, in una rigenerazione collettiva che dà senso al viaggio umano».

