Il docente ed ex parlamentare analizza le riforme in corso su valutazione, governance e autonomia degli atenei. E il percorso seguito non lo convince affatto: «Il rischio? Una ricerca meno libera e un’università in cui la velocità diventa un’ossessione, ma l’attività scientifica ha bisogno di tempi lunghi e lenti»
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Antonio Viscomi è professore ordinario di Diritto del Lavoro all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro ed è considerato uno dei maggiori esperti italiani di relazioni industriali e politiche del welfare. È stato vicepresidente della Regione Calabria e poi deputato, distinguendosi per rigore giuridico e competenza tecnica. Unisce esperienza accademica e istituzionale, con particolare attenzione ai temi del lavoro, della pubblica amministrazione e dello sviluppo del Mezzogiorno.
Il prof. Viscomi nel suo recente intervento sulle riforme che riguardano agenzie di valutazione, governance degli atenei e autonomia universitaria, ha lanciato un allarme. Per saperne di più lo abbiamo intervistato.
Secondo lei l’assetto in costruzione «sta cambiando l’università nel modo sbagliato»? Qual è il nodo centrale della sua preoccupazione? Quale modello di università adatto all’Italia per il futuro?
«La prima premessa è che l’università italiana ha problemi reali, di natura diversa e con livelli differenti di gravità. Negarli non serve: bisogna conoscerli e capirne le cause. La questione non è se fare o non fare riforme – le riforme servono – ma se quelle proposte siano davvero utili a risolvere i problemi.
La seconda premessa riguarda proprio la domanda sul modello di università. Dovremmo prima chiederci che futuro vuole costruire il Paese. Se vogliamo competere sulla qualità delle produzioni, dei servizi e della vita collettiva, servono competenze avanzate, ricerca e innovazione. Se invece scegliamo la competizione al ribasso, ci basteranno prodotti e manodopera a basso costo. L’università è un investimento o un costo? Se è un investimento, va sostenuta; se è un costo, tanto vale azzerarla».
Lei teme la perdita di terzietà della valutazione. Come si può garantire un sistema realmente indipendente?
«Oggi Anvur è guidata da un presidente designato da un consiglio direttivo scelto attraverso una procedura che coinvolge soggetti diversi: Ministero, Ocse, Accademia dei Lincei, Erc, Consiglio Nazionale degli Studenti. La riforma cambia tutto: il presidente sarà nominato direttamente dal Ministro, che indicherà anche i criteri per selezionare chi dovrà valutarlo.
È utile concentrare nelle mani di un ministro il baricentro dell’intero sistema della valutazione? Io credo di no. Non spetta alla politica decidere cosa è scientifico e cosa non lo è. Gli esempi recenti in Italia e all’estero mostrano che quando la politica invade il campo della ricerca si creano problemi enormi.
La Costituzione è chiara: arte e scienza sono libere, e libero ne è l’insegnamento. La valutazione è necessaria, certo, ma deve essere una valutazione tra pari: come per leggere un elettrocardiogramma ci vuole un cardiologo, nella ricerca chi valuta deve avere le stesse competenze di chi è valutato».
Molti propongono il sorteggio dei valutatori. È una soluzione praticabile?
«Non del tutto. Il sorteggio puro non mi convince. Meglio che la comunità scientifica elegga un numero di docenti di comprovata qualità e continuità, tra i quali poi procedere a un sorteggio pubblico. È un tema che riguarda ogni procedura valutativa, non solo l’università».
Cresce la pressione per una governance “snella” e più manageriale. Come si concilia tutto ciò con l’autonomia accademica?
«Viviamo dominati dallo short-termism: tutto deve essere veloce, immediato, misurabile. Ma la ricerca – soprattutto quella di base – ha tempi lunghi e lenti. Anche la formazione richiede tempo, se vogliamo persone capaci di risolvere problemi nuovi e non solo applicare regole note.
Oggi si pubblica di più, ma non per questo si pubblica meglio: la produttività imposta non coincide con qualità. Il libro Longpath di Ari Wallach ricorda proprio l’importanza del tempo lungo. Se valutiamo la ricerca con le metriche dei fondi di investimento, le grandi scoperte del Novecento non sarebbero mai nate».
È davvero utile guardare ai modelli stranieri?
«Si cita spesso l’estero, ma dimentichiamo un dettaglio fondamentale: gli altri Paesi investono molto più di noi. E maggiore è l’investimento, maggiore è il numero di brevetti. Copiare l’organizzazione senza aumentare le risorse non funziona. Lo abbiamo visto con il semestre filtro per Medicina.
L’Italia ha una tradizione formativa ampia e trasversale: i nostri laureati all’estero vengono assunti subito. Come ricordava Nuccio Ordine, l’“utilità dell’inutile” è un valore. Inoltre, non si può pretendere un modello unico: il fabbisogno dell’area tecnologica non è quello dell’area umanistica. E le università del Sud partono in svantaggio rispetto a quelle del Nord».
Lei parla di rischio di “politicizzazione della ricerca”. Che tipo di salvaguardie servono?
«Bisogna valorizzare il ruolo delle associazioni scientifiche e delle comunità di ricerca, che già oggi elaborano linee guida e documenti condivisi. Ma la libertà si difende anche con le risorse: meno finanziamento pubblico significa più dipendenza da privati, e quindi meno libertà».
Quale futuro vede per il rapporto tra università, ricerca e società?
«Difendere la qualità e la libertà dell’università è un interesse generale. Esistono casi di malagestione, certo, ma non possono essere usati per attaccare l’intero sistema pubblico. All’estero ci sono attori economici molto potenti che puntano a indebolire l’istruzione pubblica per finalità politiche. Senza università e scuola pubblica le diseguaglianze esplodono: è già accaduto nella sanità.
Per questo l’università non può essere trattata come un comparto isolato. Servono visione e capacità di connessione. Senza visione, la politica smette di essere politica».
Se potesse indicare tre interventi urgenti e realizzabili, quali sarebbero?
«Le leggi sono facili da fare, molto meno da applicare, e i risultati richiedono tempo. Più che misure specifiche, auspico un cambio di sguardo: considerare l’università come un elemento essenziale dello sviluppo economico e sociale del Paese.
Ripetiamo che i giovani sono il nostro futuro; in realtà siamo noi il futuro dei giovani. Le scelte di oggi determinano il loro domani. E l’università è il luogo dove quel futuro si costruisce ogni giorno».

