Leone XIV contro la burocrazia fiscale americana. Nato a Chicago quasi 70 anni fa, Robert Francis Prevost – questo il suo nome all’anagrafe – è il primo Papa statunitense della storia. E con il suo pontificato, oltre alle consuete sfide teologiche e diplomatiche, si è aperto un inedito caso giuridico e fiscale: il pontefice deve pagare le tasse negli Stati Uniti o rinunciare alla cittadinanza?

La questione, tutt’altro che marginale, parte da un dato di fatto: gli Stati Uniti tassano i cittadini non in base alla residenza, ma alla cittadinanza. Dunque, anche chi vive da decenni all’estero, anche chi è diventato capo di uno Stato straniero, ha comunque l’obbligo di dichiarare i propri redditi e beni al governo americano. E nel caso di Prevost, questo implicherebbe potenzialmente una serie di adempimenti imbarazzanti: dalla dichiarazione dei propri introiti fino alla rendicontazione – teorica ma non impossibile – di fondi come l’Obolo di San Pietro, il più emblematico tra i patrimoni caritatevoli vaticani.

Per evitare lo scivolone diplomatico, è intervenuto il deputato repubblicano Jeff Hurd, presentando alla Camera un disegno di legge ribattezzato Holy Sovereignty Protection Act. L’obiettivo è semplice: escludere espressamente il pontefice dagli obblighi fiscali statunitensi, senza costringerlo a dover scegliere tra la guida spirituale di oltre un miliardo di fedeli e la cittadinanza della nazione in cui è nato. «Questa norma – ha dichiarato Hurd – garantisce che un americano chiamato a guidare la Chiesa possa farlo senza mettere a rischio la propria cittadinanza o affrontare oneri burocratici inutili».

Il nodo, però, è più intricato. Prevost oggi ha tre cittadinanze: quella statunitense (di nascita), quella peruviana (ottenuta nel 2015 per diventare vescovo a Chiclayo) e quella vaticana, automatica in quanto Papa. Dopo il conclave, ha perfino rinnovato i documenti peruviani con l’aiuto di un funzionario arrivato da Lima. E non ha mai formalmente rinunciato al passaporto americano. Il che, secondo la legge vigente, lo renderebbe soggetto a tutti gli obblighi civili e fiscali previsti per gli altri cittadini.

A ricordarlo è stato anche il Washington Post nei giorni immediatamente successivi all’elezione: «In quanto cittadino statunitense, l’uomo precedentemente noto come cardinale Prevost è soggetto agli obblighi di dichiarazione dei redditi previsti per tutti gli americani all’estero». Anche se, in alcuni casi, si può essere esentati dal pagamento integrale, la legge prevede comunque la presentazione obbligatoria della dichiarazione annuale. E non fa sconti nemmeno a chi ricopre ruoli di governo in paesi stranieri.

Ma non finisce qui. Secondo il sito specializzato The Pillar, potrebbero finire sotto la lente del fisco anche i conti personali o istituzionali riconducibili al pontefice, come appunto l’Obolo di San Pietro o altri fondi destinati a opere di carità e interventi internazionali. Una prospettiva che al momento sembra remota, ma che ha comunque messo in allarme tanto il Vaticano quanto la diplomazia americana.

Il senso dell’Holy Sovereignty Protection Act, quindi, non è soltanto giuridico. È anche – e forse soprattutto – simbolico.

«Il papato è un’istituzione unica, all’intersezione tra fede, leadership e responsabilità globale», ha spiegato Hurd. «Non può essere trattato come un incarico amministrativo qualsiasi». La proposta, sostenuta da sei deputati repubblicani, punta dunque a blindare il ruolo del Papa da ogni interferenza esterna, almeno per quanto riguarda il rapporto con il governo degli Stati Uniti.

In attesa che il Congresso si esprima, resta sul tavolo un quesito che nessuno aveva mai dovuto affrontare: può un pontefice essere anche un contribuente sotto osservazione fiscale? La situazione non si era mai posta, perché nessun Papa prima di Leone XIV era nato in un Paese con un sistema fiscale tanto invasivo. Né Giovanni Paolo II, né Benedetto XVI, né Francesco hanno mai avuto passaporti americani. E se il successore di Pietro oggi si trova in questa singolare condizione, è proprio perché il suo passato da cittadino statunitense è ancora giuridicamente attivo.

Certo, è difficile immaginare gli ispettori federali pretendere moduli compilati da Oltretevere. Ma nei palazzi del potere statunitensi la precisione contabile è legge, e la presenza di fondi religiosi internazionali non registrati può destare sospetti o critiche bipartisan. Da qui l’urgenza del disegno di legge, che potrebbe diventare – paradossalmente – il primo atto politico concreto ispirato da un pontificato iniziato sotto il segno della sobrietà e della mediazione.

Intanto Leone XIV va avanti per la sua strada, tra incontri ecumenici e dossier internazionali. Ma forse, tra una busta pontificia e un’omelia domenicale, dovrà anche decidere se tenere in tasca quel passaporto blu con l’aquila impressa in copertina, o se – per la prima volta nella storia della Chiesa – un Papa dovrà davvero scegliere tra Dio e il Dipartimento del Tesoro.