Il dolore, il coraggio di reagire e il primo passo verso la libertà: «Papà spariva. Oggi grazie all’aiuto del SerD è tornato da noi. Non dimenticherò mai il giorno in cui l’ho accompagnato la prima volta»
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Era cominciato tutto con le schedine. Mio padre diceva che era solo per divertirsi. «Un euro qui, due lì… che sarà mai?» diceva mentre grattava il solito biglietto della fortuna. Io ci credevo, allora. Era il mio papà, l’uomo che mi portava allo stadio, che aggiustava le biciclette, che mi raccontava le favole prima di dormire.
Poi però ha cominciato a sparire. Non fisicamente, ma con la testa. Quando tornava dal lavoro non parlava più. Accendeva il televisore e guardava i risultati. Passava ore sul telefono, con applicazioni piene di numeri, quote, frecce rosse e verdi. Una sera lo sentii urlare. Aveva perso cinquecento euro su una multipla. Mamma piangeva in cucina.
Non capivo tutto, avevo solo quindici anni. Ma sapevo che qualcosa non andava. Quando mi svegliavo la mattina presto per andare a scuola, lo trovavo già alzato. Occhiaie profonde, la barba incolta. E il portafoglio, sempre più vuoto. Anche il frigo.
Una notte lo sentii parlare al telefono. Sussurrava. «Ti ridò tutto, te lo giuro. Dammi solo qualche giorno». Il giorno dopo non andò a lavorare. Disse che stava male. Ma era solo paura.
Fu mamma a parlarmi del SerD. Ne aveva sentito parlare da un’amica. Disse che lì aiutavano le persone che avevano problemi con le droghe. O con il gioco. Papà non voleva. «Io non sono un drogato!», urlò. «Posso smettere quando voglio».
Allora gli dissi qualcosa che non avevo mai avuto il coraggio di dire prima: «Papà, io ho più paura di te che degli sconosciuti a quel centro. Tu sei il mio eroe, ma da un po’ sembri qualcun altro. Se non vuoi andarci per te, vacci per me. Per la mamma. Per noi».
Mi guardò in silenzio. Era il primo sguardo vero che gli vedevo da mesi. Poi abbassò gli occhi, come un bambino che ha fatto un guaio. E disse: «Va bene. Ma vieni con me».
Quel lunedì mattina non lo dimenticherò mai. Il SerD era in un edificio grigio, vicino all’ospedale. La sala d’attesa era silenziosa. Gente che evitava lo sguardo, come se la vergogna fosse contagiosa. Ci diedero un modulo da compilare. Lui tremava. Scrisse lentamente, come se ogni parola fosse un macigno.
Ci accolse una psicologa con un sorriso gentile. Lo fece parlare. Lo lasciò piangere. E alla fine, quando uscimmo da quella stanza, papà mi abbracciò. Non lo faceva da anni. «È solo l’inizio», mi disse. «Ma oggi mi sento più leggero».
Sono passati nove mesi. Papà frequenta il gruppo ogni settimana. A volte torna a casa arrabbiato, stanco, a pezzi. Ma c’è. È di nuovo con noi. Non ha toccato un gratta e vinci da allora. Ogni tanto gli viene la tentazione, lo so. Ma adesso sa riconoscerla.
Io ho diciassette anni. E ho capito una cosa: anche gli eroi possono cadere. Ma quelli veri si rialzano, anche se hanno bisogno di una mano.
Io quella mano gliel’ho data. E lui ha avuto il coraggio di afferrarla.
«Papà, andiamo insieme». A volte, tutto comincia con una frase così.